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Sciagura Iñárritu: “Bardo” è un inno all'indecisione di un regista di talento che non ha uno straccio di idea

Mariarosa Mancuso

Il film presentato alla Mostra di Venezia ammucchia gli ingredienti del tormentoso genere "che ci faccio io qui? come ci sono arrivato? e adesso come posso proseguire?"

Ha tagliato 15 minuti, dai 174 che abbiamo visto alla Mostra di Venezia. 15 minuti di carne viva, sforbiciati dal suo “film più personale”: la sciagura che si abbatte sui registi quando superano i 50 anni. Molestia garantita per gli spettatori che di Alejandro González Iñárritu preferivano l’ironia di “Birdman - L’imprevedibile virtù dell’ignoranza” alla scomposta solennità di questo “Bardo - Cronaca falsa di alcune verità”. In poche copie al cinema da ieri, dal 16 dicembre sarà su Netflix.

Nel “Libro tibetano dei morti” il Bardo è il luogo delle anime che faticano a staccarsi dalla vita perché hanno conti da pareggiare (avevamo scelto il cinema per non mischiarci con faccende spirituali, e invece sarà la quarta volta che tocca spiegare il concetto). L’aldilà e l’aldiqua – non ancora con la maiuscola, ma poi arriveranno – sono per Iñárritu il Messico dove è nato e gli Stati Uniti che gli hanno dato il successo (e i soldi, a lui e agli altri del “burrito pack”: Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro, l’unico finora esente da “film personali”).

 

“Bardo” ammucchia tutti gli ingredienti del tormentoso genere: un gigantesco “che ci faccio io qui? come ci sono arrivato? e adesso come posso proseguire, in mancanza di uno straccio di idea per il prossimo film?”. L’indecisione comincia dalla nascita, l’artista si sa è molto precoce: da qui la scena surreale del neonato che mette fuori la testolina e poi rientra nella pancia della mamma, e poi rimette fuori la testa, e un’altra volta ci ripensa, avanti e indietro come in una gif. Prosegue con un ritorno a Città del Messico, dove il regista di “Revenant” non lavorava dai tempi di “Amores Perros”, il film che nel 2000 lo lanciò.

I registi sfigati soffrono. Anche i registi di successo soffrono, o vogliono farcelo credere. Si interrogano sulla verità e la finzione, sul ruolo privilegiato da espiare facendosi portavoce degli svantaggiati. Altri conti da pareggiare: in “Bardo” Iñárritu immagina che gli Stati Uniti – Amazon, per essere precisi, rivale di Netflix che ha prodotto il film – vogliano comprarsi la Bassa California. Da immigrato che torna a casa, per un paio d’ore si commuove e poi trova tutto insopportabile.

Iñárritu è il re del piano sequenza, nessuno è bravo quanto lui a insinuarsi con la macchina da presa in luoghi affollati senza staccare mai. Per esempio, in una gigantesca sala da ballo con terrazza, o in uno studio televisivo con il set pronto per il telegiornale di fianco al set dove le ballerine del varietà scaldano i muscoli. Perfino due amanti che si rincorrono in un appartamento prima di finire a letto. Scene bellissime. Meriterebbero di stare in un altro film, meno confuso e con il saldo scheletro di una sceneggiatura. 

Da qui il dilemma. Vederlo al cinema rende giustizia alle inquadrature spettacolari. Ma i tempi morti – tra cui una traversata del deserto che forse è il Bardo o forse solo un richiamo agli immigrati che passano il confine – suggeriscono lo schermo di casa. I 15 minuti di tagli ovviamente non si notano, pare interminabile.

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