Settant'anni da Vacanze Romane
La Roma di Audrey che coniugava bellezza e semplicità
Rivedere il capolavoro con Gregory Peck, nella Roma degradata di oggi, provoca nostalgia. Una storia cinematografica leggera e comunque indovinata, con quel tanto di malinconia che lo salva da ogni cliché
Nell’estate di settant’anni fa si girava a Roma un film, Vacanze romane, che sarebbe diventato iconico – le celebri sequenze in Vespa dei due protagonisti chi le dimentica? – con la star Gregory Peck e la giovane Audrey Hepburn. Audrey, dagli occhi di cerbiatto e la magrezza elegante, si era già fatta notare in film di minor richiamo e in teatro, soprattutto nel ruolo di Gigi, voluta proprio dall’autrice del romanzo da cui era stata tratta la commedia, la famosissima Colette. Ma fu Vacanze romane a farne un’attrice di prima grandezza.
La storia della principessa Anna, una Cenerentola al contrario, che vive pochi giorni di libertà dai doveri del suo status regale in una fuga sentimental-avventurosa con un giornalista armato delle peggiori intenzioni (scrivere un articolo scoop su quella fuga di cui solo lui conosce la verità) le guadagnò nel 1953 un primo premio Oscar e il Golden Globe. Erano ancora anni di bionde platino e maggiorate, Hepburn con la sua aria ingenua e priva di malizia, il fisico da ballerina classica, il peso di un uccellino, l’altezza da modella, si ritagliava un suo spazio unico e disarmante, attraente senza essere minaccioso: una ragazza che annunciava nuovi tempi, seduzioni da compagna di scuola, un desiderio di libertà al femminile gioioso e irresistibile. Quel film divenne anche il più attraente spot per una città che coniugava grande – diciamo pure enorme – bellezza e semplicità, una città insieme alla mano e di prestigio irraggiungibile. Cosa ne resta oggi?
Rivedere il film vivendo nella Roma degradata in cui ci muoviamo noi, la Roma che stando alle ultime rilevazioni di Legambiente è all’88esimo posto in classifica rispetto ad altre città italiane, soffocata da debordante e visibilissima spazzatura, percorsa non solo da motorini rigorosamente contromano, ma da insensati monopattini con licenza di uccidere (prima di tutto chi li manovra) è sprofondare immediatamente nella nostalgia, nella fiaba, e il bel viso di Audrey Hepburn finisce con l’incarnare tutto quello che abbiamo perduto. Su quella Vespa, creata dalla Piaggio pochi anni prima, Anna e Joe si concedono una vacanza da se stessi, un amore fuori dagli schemi, una gran voglia di vivere e di essere felici. Lui è bellissimo, lei tenera e spaesata. Si dice che la storia del film fosse ispirata alla realtà di una fuga in Italia della principessa Margaret d’Inghilterra con l’eroe di guerra e “scudiero del re”, molto più grande di lei, l’affascinantissimo Peter Townsend, quando il loro amore era contrastato dalla ragion di stato e dalla Corona inglese. E questo aggiungeva pepe a una storia cinematografica comunque indovinata, leggera ma con quel tanto di finale malinconia che non faceva scadere il film nella banalità d’un lieto fine. E poi chissà, magari anche Anna e Joe, fuori dallo schermo hanno coronato il loro sogno d’amore come accadde, nella realtà, a Margaret e Peter. Non – come si sa – per vivere felici e contenti per sempre… ma qui ci addentriamo in un campo troppo lontano dalle fiabe.
Anche se nemmeno la vera vita di Audrey è stata una favola. Almeno all’inizio. Da giovane voleva con tutta se stessa fare la ballerina, ma le ristrettezze della guerra, le fughe, gli spostamenti le avevano fatto perdere tempo prezioso per prepararsi seriamente alla grande carriera desiderata e aveva dovuto appendere le scarpette al chiodo. Era nata il 4 maggio del 1929 a Ixelles, in Belgio, e cresciuta i primi anni in Inghilterra, figlia di padre inglese che lavorava per una compagnia di assicurazioni britannica, e di un’aristocratica olandese. Nel 1935 il padre, simpatizzante del nazismo, abbandonò la famiglia. Soltanto molti anni dopo Audrey sarebbe riuscita a rintracciarlo, grazie all’aiuto di Mel Ferrer e della Croce Rossa internazionale, a Dublino, solo e in miseria, e lo avrebbe aiutato finanziariamente fino alla morte. Durante la guerra era tornata con la madre ad Arnhem, in Olanda, dove aveva cominciato a studiare danza con risultati brillanti. Ma la caduta della città in mano ai tedeschi, nel 1940, aveva reso le condizioni di vita precarie e sempre più difficili. Anni di pericolo e carestia, pagati dalla ragazza ormai quindicenne, che faceva anche da staffetta partigiana portando messaggi nascosti nelle scarpe, con un grave deperimento organico e conseguenti malattie. Gli americani arrivano appena in tempo a rinvigorire il mucchio di pelle e ossa che era diventato il suo corpo – nutrito ormai solo di tulipani e fili d’erba – col regalo di tavolette di cioccolata che avrebbero potuto anche ucciderla.
Ma è un tipo che non si dà per vinta, Audrey. Tornata a Londra nel dopoguerra, se non può fare la ballerina, prova a fare l’attrice. Ha bisogno di soldi e vuole andare a vivere per conto suo, lasciarsi alle spalle il dolore della giovinezza, il fallimento della sognata carriera nella danza. Danza che comunque le tornerà utile: ha un portamento e una leggerezza eccezionali e si fa notare nelle prime prove cinematografiche come in quello spettacolo teatrale, Gigi, che la porterà a New York per un fiume di repliche. E quando William Wyler, che per Vacanze romane aveva pensato a Elizabeth Taylor, la vede nei provini, non ha dubbi: “E’ lei!” Dopo dirà: “Aveva tutto quello che stavo cercando, fascino, innocenza e talento. Era assolutamente incantevole”.
Incantevole è forse l’attributo che meglio la racconta. Basta sfogliare le splendide foto di una mostra che le dedicò nel 1999 il Museo Salvatore Ferragamo di Firenze, nel libro Audrey Hepburn, edito dalla Leonardo. Lei così fuori dagli schemi, così nuova e unica, con quegli occhioni distanti enormi, il viso delicato e tondeggiante, il naso importante ma proporzionato, un leggero broncio delle labbra, le orecchie un poco grandi da persona buona. E poi lo sguardo: sincero, semplice, malizioso ma non sexy o ambiguo. Uno dei suoi fotografi più famosi, Cecil Beaton, diceva che i capelli di Audrey sembravano “rosicchiati dai topi”, ma questo non le toglieva un briciolo di eleganza. E Billy Wilder per dirne la perfezione: “Dio la baciò sulla guancia, e fu creata”. E un altro fotografo, Bob Willoughby: “Emanava un che di speciale e di rassicurante. La sua bellezza era espressione di una qualità interiore che irradiava”.
Incantevole, appunto. Come nel personaggio di Sabrina, del 1954, in cui fu proprio Wilder a dirigerla accanto a due partner d’eccezione, Humphrey Bogart e William Holden. E questa è davvero la storia di Cenerentola, una Cenerentola figlia dell’autista di una famiglia di miliardari che finirà per sposare il principe, ovvero un blindatissimo quanto antipatico primogenito, che in realtà non aspettava altro se non innamorarsi perdutamente di Audrey/Sabrina. Incantevole, e irresistibile.
E dopo Sabrina c’è tanto altro, sempre con partner di rilievo, da Cary Grant a Gary Cooper, da Peter O’Toole a William Holden, da Gregory Peck a Sean Connery. Avrebbe potuto la Natascia di Tolstoj avere al cinema una grazia diversa da quella di una Audrey Hepburn di ventisette anni? “Aveva grandi occhi scuri, la bocca larga, vivace, allegra, piena di vita… un piccolo miracolo di candore e di magia”: così è descritta Natascia in Guerra e pace e così appare Audrey nel film di Cukor del 1956, accanto a due bellissimi giganti, Henry Fonda, nei panni di Pierre Bezukhov, e Mel Ferrer che interpreta il principe Andrej.
Si può dire che, sempre con quel suo particolare distacco, quell’aria di “va bene, faccio l’attrice, ma preferirei tanto non farlo” (che corrispondeva profondamente al vero, dicono i testimoni) non abbia sbagliato mai un personaggio. Tutti più o meno indimenticabili, anche quello di Reggie Lampert in Sciarada di Stanley Donen o la My fair Lady di Cukor, o la cieca Susy dello spaventosissimo Gli occhi della notte di Terence Young. E poi la Joanna dell’innovativo Due per la strada – pure di Donen (anno 1967) – su una coppia che si sta lasciando e rivive le tappe del suo stare insieme nelle varie fasi buone e cattive. Il problema per Audrey fu che mentre girava il film si stava davvero separando dal primo marito, Mel Ferrer, grandissimo amore e importante compagno di lavoro come attore e come regista. Ma forse più che a ogni altro personaggio Audrey Hepburn resta legata a quel misto di ingenuità, sprovvedutezza, arroganza, innocenza che è Holly Golightly in Colazione da Tiffany. L’irresponsabile, disadattata, sognatrice Holly che lascia dietro di sé solo un gatto e un piccolo cumulo di macerie esistenziali, Holly che non sa riconoscere il vero amore e insegue vane speranze di ricchezza e felicità. E’ la storia di un romanzo stupendo (di Truman Capote) che, se ha dato vita a un film altrettanto stupendo (di Blake Edwards, 1961), è soprattutto per merito suo, di Audrey Hepburn.
Sì, proprio Audrey con l’aria di fare la (grande) attrice per sbaglio, per ripiego sulla vera vocazione mancata di ballerina. E infatti, appena ha potuto ha mollato tutto. Per lei contavano di più la famiglia, l’amore, i figli, la casa, i cani e gli altri animali di cui si circondava. Fra le molte incantevoli fotografie private che illustrano il prezioso Audrey, mia madre del figlio Luca Dotti (edito da Mondadori nel 2015) ce n’è una del 1958 dolcissima e particolarmente rappresentativa: lei che dorme stesa su un divano con un cerbiatto, Pippin, appisolato sul suo seno come un neonato e un cagnolino ai piedi, Mr. Famous, uno yorkshire fotografatissimo, che aveva in quegli anni. Ha quel suo viso tondo da bambina, i capelli corti, l’aria soddisfatta e innocente.
Luca è il figlio del secondo matrimonio, con lo psichiatra romano Andrea Dotti, nipote di Renato Guttuso, incontrato nel 1968 e sposato l’anno dopo. Perché, scrive Luca: “Quando s’innamorava mia madre non perdeva tempo”. Con Mel Ferrer, conosciuto alla prima di Vacanze romane e presentatogli da Gregory Peck, il fidanzamento era durato cinque mesi e subito erano convolati. Anche da Mel aveva avuto un figlio, Sean, che è oggi un produttore cinematografico di sessantadue anni. Non sposò però il terzo compagno di vita, Robert Wolders, incontrato nel 1980, col quale condividerà l’impegno umanitario dei suoi ultimi dodici anni e che le resta vicino nella malattia fino alla morte. Un impegno, il suo con l’Unicef, non certo di pura rappresentanza, ma molto serio. Le prese tante energie fisiche e psichiche. Fu strenua testimone sul campo, in Africa, soprattutto del dolore dei bambini, malati e affamati. “Posso testimoniare cosa significhi l’Unicef per i bambini” ebbe a dire ricordando la sua difficile infanzia “perché sono stata fra quelli che hanno ricevuto cibo e soccorso medico subito dopo la Seconda guerra mondiale”. E per rispondere alle critiche che le venivano mosse, diceva: “Certo sarebbe stato giusto essere esperta di educazione, di economia, di politica, di religioni, di tradizioni e di culture. Io non sono niente di tutto questo, ma sono una madre”.
Il libro di Luca Dotti svela il lato più intimo e vero di Audrey madre, raccogliendone le ricette – anche quella del pappone di riso per i cani – e raccontando aneddoti domestici, ricordi personali, memorie di amici, accanto a sue dichiarazioni come queste: “Sono una casalinga romana, proprio come volevo essere”. “Osservare mio figlio che cresce è meraviglioso”. “Non mi sono mai sentita parte di Hollywood e finalmente ho trovato un posto dove mi sento realmente a casa”.
Il posto era la sua dimora di campagna intorno a Losanna, La Paisable, comprata nel ’65, un posto di pace e di calma come dice il nome. Adorava il suo giardino pieno di fiori, i suoi alberi, il suo orto, i suoi animali. Ma anche dopo il divorzio da Dotti, deciso di comune accordo, dopo quattordici anni insieme, si divideva fra quella casa amatissima e Roma per stare vicino al figlio e seguirlo negli studi. Doveva avere anche un lato piuttosto spiritoso, se una volta a un giornalista che le chiedeva: “Perché i due cani dormono nel letto con voi?”, lei rispose senza scomporsi: “Perché non abbiamo trovato una cuccia abbastanza grande per quattro”.
Tornò al cinema ancora poche volte dopo il clamoroso abbandono, per lavorare con amici che glielo chiedevano. Così abbiamo potuto apprezzarla di nuovo in Robin e Marian, a fianco di Sean Connery, nel ’76, e quattro anni dopo nel film di Bogdanovich E tutti risero. L’ultima apparizione fu nella parte dell’angelo, accanto a Richard Dreyfuss, in Per sempre di Spielberg. Nel 1992 riesce ancora a fare un durissimo viaggio umanitario in Somalia, che la sconvolge per la guerra civile e la carestia di cui è diretta testimone e che non si stanca di denunciare. Al ritorno viene operata due volte di tumore. Muore il 20 gennaio del 1994 alla Paisable dopo aver passato il Natale in famiglia. Sta per chiudersi uno dei secoli più pesanti della Storia, ma quello che verrà, il fantasticato 2000, non sembra all’altezza delle speranzose aspettative di un’umanità migliore e pacifica.
E invece al funerale di Audrey, che sapeva creare armonia intorno a sé, c’erano tutti i suoi amori.
Politicamente corretto e panettone