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La lezione di Spielberg sull'arte necessaria del portare i caffè al regista
Il regista ai Golden Globe non ha parlato di discriminazioni, sopraffazioni, diseguaglianze o produttori mefistofelici che allungano le mani. Ha parlato dei suoi inizi. Ha parlato dei tanti caffè portati sul set come assistente di Cassavetes
Meno male che Spielberg c’è. Nell’epoca in cui gli Oscar sono una fiera di monologhi su razzismo, cambiamenti climatici, bullismo, MeToo (che poi ci rifilano anche in versione Sanremo, quindi scritti peggio), il suo speech ai Golden Globe diventa una piccola lezione sulla tigna, sull’ambizione, su come si sta al mondo, a Hollywood come a Frascati. Si premiava del resto, “The Fabelmans” (per quei pochi che non lo sapessero, romanzo di formazione sull’infanzia e l’adolescenza di Spielberg, bambino salvato dal cinema come Mosè dalle acque).
Chiamato sul palco da Tarantino, Spielberg non ha parlato di discriminazioni, sopraffazioni, diseguaglianze o produttori mefistofelici che allungano le mani. Ha parlato dei suoi inizi. Ha parlato dei tanti caffè portati sul set come assistente di Cassavetes (una scena che da sola valeva la serata, al solito lunga e noiosa). “C’era sempre un gran casino, io portavo i caffè, correvo sempre su e giù per il set, portavo tutto quello che mi chiedevano. Ecco perché oggi tratto bene gli assistenti, perché mi ricordo cosa si prova”. Saper portare i caffè (che Spielberg peraltro odia) come rito di iniziazione e chiave di volta di ogni carriera. Una lezione per i mitomani, per i registi con due cortometraggi che si fanno chiamare “autori”, per quelli che non accettano uno stage lontano da casa perché mamma non vuole, per chi “aspetta il lavoro dei sogni” (cit.) senza passare dai caffè, e per quelli che “se ce l’ha fatta sarà stato senz’altro raccomandato”, ovvio.
Oggi anche lo stagista vessato e non retribuito, quello insomma immortalato da “Boris”, è figura che ambisce allo statuto di vittima, che del resto non si nega a nessuno. In pochi guadagnano consenso elogiando i caffè da portare sul set o le piramidi di fotocopie da fare in ufficio. Tutti invece diventano testimonial del bene se raccontano quanto poco o niente sono stati pagati all’inizio, sfruttati, maltrattati, specie a Hollywood. Ma Hollywood è anche quel posto dove si inizia coi caffè e si diventa Steven Spielberg, anche se ormai ce ne siamo dimenticati. C’era poi sempre Spielberg anche nella premiazione di Jonathan Ke Quan (lo conoscete benissimo, anche se non l’avete mai chiamato così). Quan scappò con i genitori da Saigon dopo la disfatta americana in Vietnam. Quando arrivò negli Stati Uniti aveva 4 anni. A 12 fu lanciato da Spielberg a fianco di Harrison Ford in “Indiana Jones e il tempio maledetto”. Poi un altro successo stratosferico, subito dopo, con “The Goonies”, sempre della galassia Spielberg. Poi i ruoli iniziarono a diminuire. La carriera svanì. Magari per un po’ di visibilità, avrebbe potuto cavalcare le solite accuse di “rappresentazioni stereotipate degli asiatici e degli indiani” che puntualmente calano su quell’“Indiana Jones”. Poteva fare come la coppia di attori giovani del “Romeo e Giulietta” che 55 anni dopo denunciano la Paramount perché Zeffirelli li avrebbe costretti a spogliarsi (per tentare di nuovo con Hollywood, Muccino oggi potrebbe girare “La ricerca dell’inclusività”, magari non con Will Smith). L’altra sera invece Quan è salito sul palco dei Golden Globe, dopo vent’anni di assenza dallo schermo, premiato come migliore attore non protagonista per “Everything Everywhere All at Once”. Aveva gli occhi lucidi. “Non dimenticherò mai da dove vengo, non dimenticherò mai chi mi ha dato l’opportunità di iniziare a fare questo lavoro, grazie Steven Spielberg!”. E giù lacrimoni, abbracci, commozione alle stelle. Proprio come in un film di Spielberg.