Golden age o corporate age?
I documentari conquistano i palinsesti, sono troppi e pure un po' truccati
Netflix tira la volata, proponendo una serie nuova a settimana e restringendo i tempi di lavoro fino al cottimo: altro che il mese di montaggio richiesto normalmente per dieci minuti di film finito. Tutte le ragioni di una crisi di identità
Avete la candela profumata per guardare i documentari? (Chi pensa a Gwyneth Paltrow può smettere subito di leggere). Sono candele messe in commercio da A24, la casa di produzione a cui dobbiamo il classico “Macbeth” di Joel Coen e lo scombiccherato “Everything, Everywhere All at Once” (due registi di nome Daniel e una valanga di nomination agli Oscar). Le prime candele profumate erano d’accompagno ai generi classici, la fragranza “documentario” ora promette “aroma di archivi universitari, ritagli di vecchi giornali, found footage” (ovverosia vecchie pellicole, vergini o scartate in montaggio).
Il documentario sgomita, guadagna spazio nei palinsesti e racconta al mondo quanto siano intelligenti i polpi (il polpo femmina, per essere precisi: quando arriva il pericolo attira a sé il conchigliame e diventa una palla inespugnabile). E fin qui si trattava di una normale e benedetta golden age: lo spazio abbonda, il budget di un documentario basterebbe a James Cameron per girare appena cinque minuti dei suoi giganti blu – ecco, un corto con le sagome di carta forse l’avremmo visto volentieri, e chiusa lì. I documentari facevano reputazione e costavano poco, portando a casa premi. Poi è arrivata la corporate age – l’epoca delle multinazionali – con relativa crisi di identità (capita quando ci sono i soldi, mai sentito parlare di crisi di identità per un genere spiantato che nessuno vuole?).
È sempre Netflix che tira la volata, proponendo una serie nuova a settimana. Restringe i tempi di lavoro fino al cottimo, altro che il mese di montaggio richiesto normalmente per dieci minuti di film finito. Dietro la miniserie “The Jinx” di Andrew Jarecki c’erano anni di lavoro, tra ricerche e riprese. Alla fine, e nessuno se l’aspettava, arrivò la confessione del triplice assassino, il miliardario Robert Dunst: con il microfono si guardò allo specchio del bagno e ammise: “Mi ha incastrato. Le ho uccise tutte e tre”. Scene come questa non si possono girare una seconda volta, né rimettere in scena (nessuno rischia l’ergastolo per far vincere un premio al regista). Se ne possono rifare altre, e qui entra in scena la “Story Structure Template” di Netflix. Ovverosia: non penserete di montare la storia in base alle interviste fatte, e al materiale raccolto? Niente affatto: al dieci per cento della lunghezza totale il protagonista deve trovarsi in una certa condizione. “È un documentario, non si sa cosa succede”, ribatte lo sventurato. Macché, bisogna prendere a esempio “Erin Brockovich” o “Il gladiatore”. Una storia vera e una storia inventata, diventate film perché sono “esemplari”. Non tutte le storie di successo, o di somma sfiga, accadono così. Neanche al cinema, figuriamoci in un documentario.
Vi è passata la voglia? Sappiate che vanno fortissimi i true crime alla “Ted Bumpy”: almeno trenta omicidi di ragazze alla fine degli anni 70. Carino e gentile, avvicinava le vittime senza difficoltà. Sulla scia, ora abbiamo Jeffrey Dahmer il mostro di Milwaukee, anche lui titolare (soltanto nel 2022) di una miniserie, e di una docuserie (restano fissi i 15 ergastoli). Da qui la caccia ai testimoni, ai vicini di casa, alla maestra che lo trovava discolo, agli amici e alle amiche. Chi arriva prima ha le interviste migliori. E quindi, letto un caso di cronaca, i produttori corrono a mettere sotto contratto, ovviamente in esclusiva, i testimoni più loquaci. Togliendoli dal mercato in cambio di un assegno. E poi c’è il montaggio detto “frankenbiting” – pezzi di dialogo accostati per ben figurare drammaticamente, il resto non importa. Ecco perché una volta documentario voleva dire noia, e ora è tutto un colpo di scena.