L'anniversario
Il caleidoscopio Troisi ricomposto nell'ultimo film di Mario Martone
"Laggiù qualcuno mi ama" racconta l'attore napoletano che avrebbe compiuto settant'anni questo febbraio: dal cabaret della Smorfia al cinema, dalla recitazione alla regia
Se lassù come quaggiù qualcuno lo ama, a Massimo Troisi è concesso un sorriso fisso in più una volta all’anno, quando si rinnova immancabile l’appuntamento coi monologhi del Festival di Sanremo. Aspiranti con sommessa ambizione alla consacrazione antologica, tra un “I have a dream” di Martin Luther King e “Questa è la nostra patria” di David Ben-Gurion, quei recitativi che separano una melodia da una pubblicità finiscono generalmente, dopo un triduo di fiammeggianti polemiche, nel cassone delle parole dimenticabili e dimenticate, appassendo con la rapidità dei fiori scampati alla presunta furia di Blanco. Com’è giusto che sia. Sopravvive invece quarantadue anni dopo il monologo di Massimo Troisi, per la stringente ragione che non fu mai pronunciato e che ciascuno può immaginarsi sempre quell’ironico intervento come il più straordinario discorso perduto di Sanremo.
Era il 1981, Festival senza orchestra presentato da Claudio Cecchetto su basi musicali preregistrate. “Me too” significava solamente “anch’io” ma a differenza dell’ultima edizione, con tre uomini ai primi posti della classifica, allora la vittoria fu contesa tra le donne e Alice la spuntò con Per Elisa su Maledetta primavera di Loretta Goggi. Troisi fu invitato a tenere un monologo ma gli chiesero di visionare il testo che lui naturalmente non aveva. Perciò, venne avvisato che non avrebbe dovuto parlare di politica o di religione, di terrorismo e del terremoto che due mesi e mezzo prima aveva funestato la Campania. “A questo punto sono indeciso se recitare una poesia di Pascoli o una di Carducci”, commentò Troisi prima di rifare la valigia e andarsene rinunciando a promuovere il suo primo film, Ricomincio da tre, che poche settimane dopo avrebbe sbancato i botteghini anche senza la réclame sanremese.
Perché il genio della comicità, l’attore senza data di scadenza, il napoletano del genere mansueto e malinconico fu anche “la persona più capace di proteggere un’idea, senza cedere a ricatti o scendere a compromessi”, ha sottolineato nel libro C’era una volta Lello Arena, che fu per lungo tempo suo compagno di viaggio nel trio La Smorfia e nei primi film. Se ne accorgevano soltanto gli intimi quando s’irrigidiva veramente, decifrando tra l’eloquio spezzato e il linguaggio del corpo minimi segnali come la contrazione e il pallore delle labbra. Se ne avvedevano dai silenzi ai quali consegnava il più deciso disappunto in accordo a un carattere che non si manifestò mai aggressivo, “ma molto determinato sulle sue idee e i suoi desideri, su ciò che gli piaceva e non gli piaceva”, racconta Anna Pavignano, compagna dell’artista e sua cosceneggiatrice fino all’ultima esperienza del Postino. “Massimo era incapace di un plateale sbotto d’ira, ma era il tipo che non lasciava correre e si difendeva con ostinazione”.
Forse non a caso avrebbe dovuto esordire sul grande schermo impersonando Franceschiello, l’ultimo dei Borbone, giovane introspettivo e irresoluto, non un re guerriero ma personaggio integro e fragile, pertanto destinato a essere macinato dalla Storia e maltrattato dagli storici. L’idea del film però fu accantonata per ragioni commerciali (Luigi Magni avrebbe realizzato ’O Re soltanto nel 1989, con la parte del protagonista assegnata a Giancarlo Giannini). E il contratto già firmato da Troisi fu trasformato in quello di Ricomincio da tre. Primattore e regista di se stesso. Per esternare pienamente la propria melanconica ironia avrebbe approfittato di successive occasioni nei panni più diversi, dal Pulcinella che accompagna Capitan Fracassa nel Viaggio di Ettore Scola a Mario Ruoppolo, Postino per non farsi pescatore, che vuol sapere da Pablo Neruda “come si diventa poeti” (con la poetica risposta: “Prova a camminare lentamente lungo la riva sino alla baia, guardando attorno a te”).
Osserva la biografa Matilde Hochkofler che “la comicità di Troisi è prima di tutto verbale, nasce da quello che dice, ma non può prescindere dal modo in cui lo dice. Dalla mobilità del viso, degli occhi, della bocca e dei movimenti delle mani… non occorreva che si esibisse con tutto il corpo, bastava che sottolineasse le sue invenzioni verbali con piccoli cenni del capo, con un ammiccare degli occhi, con una smorfia della bocca, con una scrollata dei capelli ricciuti, con il passarsi la mano sul viso, sugli occhi, sulla bocca. Aveva la capacità innata, non mediata da nessuna scuola, di utilizzare ogni più piccolo particolare di se stesso per comunicare allegria e intelligenza”. Su di lui è stato scritto di tutto senza il contrario di tutto, perché a qualcuno poteva non piacere però in fondo non ha diviso il pubblico e la critica. Reinventò con le espressioni e il linguaggio un volto inconfondibile come solo Totò aveva avuto il potere di fare, però su una maschera; ricombinò un dialetto che non era retorico né folcloristico, né attinto alla tradizione letteraria barocca né facilmente ricalcato su Eduardo o sull’ispido idioma di Raffaele Viviani. Era piuttosto la lingua solo di Troisi, sperimentata prima ancora che negli atti unici del gruppo La Smorfia, nel teatrino di San Giorgio a Cremano dove aveva cominciato recitando le farse ottocentesche di Antonio Petito, il più grande Pulcinella della storia, che affidavano i “lazzi” all’improvvisazione degli interpreti. Nessuno dovette spiegargli come fare, sin dalla volta in cui si presentò per la recita di Natale sulla scena parrocchiale sostituendo un ragazzo che s’era ammalato. Secondo il copione, racconta Lello Arena, la scena con il suo dialogo doveva durare sei secondi, ma senza che l’avesse provata si prolungò per sei minuti facendo sbellicare la platea.
“La sua comicità fu sempre un meccanismo per comunicare contenuti seri in modo lieve”, ricorda Anna Pavignano, “e per trasmettere in maniera inconsapevole messaggi pesanti da accettare se esposti seriamente: così dovrebbe essere per tutti i comici migliori”. Così fu per lui col primo film: una cosa troppo seria era accaduta tra l’inizio e la fine delle riprese di Ricomincio da tre, scritto nella mansarda di un gelido appartamento sul lago di Nemi fittato per l’occasione da Troisi e dai suoi amici. Il terremoto del 23 novembre 1980 segnò per la Campania lo spartiacque tra due decenni, una netta cesura morale tra un prima e un dopo visibile anche nel repentino cambiamento urbano, quando molti palazzi e interi vicoli furono puntellati, presentando un paesaggio lunare che chi non visse la cronaca ignorerebbe se non restasse immortalato nella narrazione cinematografica. Un esempio è Mi manda Picone di Nanni Loy, un altro è proprio Ricomincio da tre: Troisi volle girare nuovamente le scene iniziali nella storica Villa Vannucchi di San Giorgio a Cremano, dove nel frattempo erano stati innalzati ponteggi e puntelli per sorreggere la struttura. “Massimo”, rievoca al presente storico Lello Arena, “vuole a tutti i costi raccontare quel dolore, e che quelle immagini possano restare come testimonianza per sempre. Decide, quindi, di rigirare la sequenza di apertura”. Quando l’amico chiama da giù a tutta voce Gaetano finché questi non scende per farlo zittire, la scena è molto divertente ma il disastro collettivo è nella scenografia. Come sarebbe stato nel monologo di Sanremo dove invece del terremoto non poteva parlare.
Il caleidoscopio Troisi – dal cabaret della Smorfia al cinema, dalla recitazione alla regia – è stato appena ricomposto nel film documentario Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone scritto con Anna Pavignano. Presentata al Festival di Berlino con approdo nelle sale italiane il 23 febbraio, l’opera include spezzoni delle pellicole di Troisi, interviste realizzate ad hoc con personaggi del cinema più materiali inediti, da una conversazione con la giornalista Roberta Sibona ai foglietti di appunti lasciati dall’attore scomparso il 4 giugno 1994 a quarantun anni. Ne avrebbe compiuti settanta questo 19 febbraio, celebrati a Napoli con numerose iniziative per nulla scontate: la città che spesso graffia i propri figli, “che ti ferisce a morte o t’addormenta”, come dice Raffaele La Capria, è stata carezzevole da subito nel caso di Troisi. A differenza di Salvator Rosa o di un Enrico Caruso, lui con Napoli non litigò mai; a differenza di Totò – santo subito per il suo popolo – non ha dovuto aspettare così a lungo per ricevere omaggi toponomastici (tributati anche dalla sua San Giorgio a Cremano); né visse da Roma la distanza volontaria come adesione al “fujtevenne” di Eduardo o come sottrazione a un soffocante affetto, che spinse invece all’allontanamento il suo amico Pino Daniele (ma l’elenco di “emigranti” e rispettive ragioni è così lungo e noto da non declinarlo).
Il docufilm restituisce l’artista “come se lui si raccontasse”, spiega Anna, “grazie alla sintonia e al talento di Martone: tra loro due, che pure hanno espresso un cinema così diverso, s’intrecciano molti fili sotterranei e una visione condivisa di Napoli e della sua storia. Perciò, nonostante la presenza importante di Martone, la sensazione è di vedere un film di Massimo. L’idea di questo lavoro era nell’aria da tempo, ma per realizzarlo bisognava trovare chi avesse le giuste corde e gli strumenti artistici. Ricavai già dal primo incontro l’impressione che Martone nutrisse per Troisi lo stesso sentimento riscontrato fra chiunque mi parli di lui: un’affettuosa devozione al di là dell’interesse professionale”. “Se fosse vivo” è la consunta formula con cui evochiamo chi intanto se n’è andato e che l’artista napoletano rovesciò nel finto documentario Morto Troisi, viva Troisi!, girato nel 1982 per la tv parodiando la propria prematura scomparsa dodici anni prima che avvenisse davvero.
“Se fosse vivo” è l’amorosa formula su cui Anna Pavignano ha sviluppato il romanzo Da domani mi alzo tardi, pubblicato nel 2006 per le edizioni e/o. Stefano Veneruso, nipote di Massimo, dal libro ha tratto un film con lo stesso titolo, uscito il 14 febbraio scorso dopo l’anteprima al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove resterà allestita fino al 13 marzo una mostra dedicata a Troisi. Nel libro Anna immagina che lui non sia morto, ma abbia deciso di scomparire all’apice della popolarità sull’esempio di Mina e che riappaia all’improvviso un giorno di molti anni dopo, ormai maturo signore, dal suo remoto ritiro per incontrarsi nuovamente con lei che ha intanto realizzato la sua vita con una famiglia felice e con i figli. Massimo torna per confrontarsi definitivamente su se stesso, sull’irrisolto amore, su risentimenti e tradimenti, su lusinghe e conseguenze del successo e su un sodalizio artistico che fu con lei più duraturo del legame di coppia, con una illuminazione dei dettagli che lascia dubitare chi legge dell’effettiva morte di Troisi. Forse la narrativa, quando certe sovrapposizioni fra vita e romanzo realizzano l’incastro magico, è davvero una macchina di correzione del tempo, un meccanismo per resurrezioni temporanee che il lettore può chiamare illusorie soltanto quando si dà un pizzico al termine delle pagine. E se ancora fosse vivo, ma veramente, i tifosi del Napoli starebbero già immaginando – o forse no per necessaria scaramanzia – una sua surreale intervista come quella con Gianni Minà, quando la squadra conquistò il primo scudetto nel 1987. La vittoria fu salutata con lo striscione Scusate il ritardo, come il secondo film di Troisi. L’aveva girato, scherzò, proprio pensando che così “quando il Napoli vince lo scudetto si trovano già il titolo”. E s’augurò che un giorno si potesse utilizzare per la stessa ragione Ricomincio da tre. Facendo le corna, questo poi si vedrà.