Dan Kwan, James Hong e Daniel Scheinert alla prima di "Everything Everywhere All At Once" di A24 a Los Angeles (Foto di Tommaso Boddi/WireImage) 

Dalla Roma-L'Aquila agli Oscar. Fenomenologia della casa di produzione A24

Andrea Minuz

È la Hbo dei film indipendenti. Venerata dai millennial sta cambiando le regole nel cinema americano. Il suo “Everything, Everywhere, All at Once” ha vinto sette statuette tra cui miglior film, migliore attrice e migliori non protagonisti

Fino a pochi anni fa era l’underdog di Hollywood. Oggi detta legge in fatto di Oscar. A24, la Hbo del cinema indipendente americano, arriva favoritissima a questa edizione sbaragliando tutti con una valanga di candidature sparse qui e là, su cui svettano “The Whale”, con Brendan Fraser in duecento chili di carne probabile miglior attore, e “Everything, Everywhere, All at Once”, titolo à la Wertmüller, plot psichedelico, dato in quota miglior film, nonostante Spielberg, “Top Gun”, “Avatar”. Vedremo. Per noi boomer A24 è più che altro l’autostrada Roma-Teramo (uscita 14 del Gra) con svincolo per l’Aquila, ma è proprio qui che un’estate di dieci anni fa, mentre era in vacanza in Italia, guidando tra Vicovaro-Mandela e Tagliacozzo, un impiegato al Guggenheim di New York, Daniel Katz, ebbe l’idea, la folgorazione, trovò il nome di quello che sarebbe diventato il marchio cinephile venerato dai millennial. Come Guzzanti in “Boris”, quando raccontava di aver visto Gesù in una piazzola della Roma-L’Aquila, per Katz fu un’epifania: ma certo, la chiameremo A24! Oggi è un brand distintivo, come Apple, Netflix, Starbucks, Walmart, con un logo acchiappa-millennial che ricorda molto quello di TikTok: neon, font, lettering, l’hipsterissimo “effetto glitch”, l’immagine sfocata che è anche un tributo all’estetica video anni Ottanta, un po’ Warhol, un po’ Mario Bros. 

  
I film A24 si riconoscono subito. Horror, drammatici, distopici, disperati o strampalati mantengono sempre le promesse del marchio: un’esperienza altamente “alternativa”, naturalmente “di nicchia”, che mette insieme cinefilia retrò, “inclusivity” e instagrammabilità. Hanno un fandom pazzesco di giovani, giovanissimi o adulti in crisi di mezza età che provano a tenere il passo delle mode indie-hipster comprando sul loro sito t-shirt, gadget, guinzagli per cani, guide fotografiche sui resort per anziani in Florida o zainetti A24 che non troveranno nei mercatini vintage dell’usato. Al mercato di Toronto, o all’Indipendent Film Week di New York, o al Sundance, giovani autori con barbe rigogliose fanno la fila per riuscire a parlare con qualcuno di A24. Filmmaker del Pigneto di tutto il mondo sognano di agganciare un producer di A24 e fargli vedere un corto, leggere un soggetto, una sceneggiatura difficile ma che “potrebbe raggiungere un certo pubblico”. E invece quelli pescano un diciassettenne da YouTube, con horror fatti in cameretta da cento milioni di visualizzazioni, perfetto per esordire con A24 (si chiama Kane Parsons, mette insieme vecchi videotape fantasma sfruttando ancora, trent’anni dopo, gli ultimi rimasugli di “The Blair Witch Project”). Ma gli horror A24 non sono veri horror. Non sangue a fiotti, scorticamenti, motoseghe, zombie, ma sempre visivamente eleganti, riflessivi, “pittorici”, come “Hereditary”, oppure che affondano le radici nel folktale americano, come “The Witch”. Non succede molto ma quanta inquietudine, quali turbamenti e spleen! Horror contemplativi, “prestige horror” che hanno portato verso il genere un nuovo pubblico accigliato, pensoso, che intravede anche tra case stregate e boschi maledetti influenze e risonanze di Antonioni e Béla Tarr. 

 
Lo stradario italiano è evidentemente fonte di ispirazione per molti. Anche Leonardo DiCaprio fondò la sua casa di produzione quando era a Roma per girare “Gangs of New York” e la chiamò “Appian Way”, logo da ristorante turistico in centro, scia di sampietrini stilizzati e Arco di Costantino sullo sfondo (c’era anche la “Aurelia Film”, casa di produzione di Sordi, ma lì l’ispirazione era la sorella, non la strada). Ma con la “Ancient Rome” è facile, so’ boni tutti, come dicono a Roma. Invece rendere cool e accattivante la “Roma-Teramo”, oltre che una lezione per i cinematografari di casa nostra, è davvero un’impresa molto off-off. Una di quelle cose che capitano nei film di Wes Anderson. Un’autostrada che s’inerpica tra i monti marsicani che diventa la cornice ideale per una società di produzione e distribuzione che sta cambiando le regole di Hollywood: una A24 ormai nell’immaginario, tra le highway americane, come la Route 66, sfrecciando nella wilderness di Ovindoli, come la famiglia Marchetti di “Vacanze di Natale” e Mario Brega tutto vestito American Apparel, appena tornato dal Sundance. Tra i tratti distintivi di A24 c’è sicuramente la newyorkesità. Dunque non Los Angeles, non Hollywood, piscine, palme, villoni, ma una cultura intensamente metropolitana, sofisticata, con l’eco dell’underground cinematografico, la cooperativa di Jonas Mekas, Cassavetes, Warhol, il “new american cinema”. L’opposto, insomma, della vocazione blockbuster degli assolati kolossal hollywoodiani. All’inizio era solo un piccolo ufficio anonimo nel Lower Manhattan con otto dipendenti, compresi i tre membri fondatori. Ma già un anno dopo, eccoli in un grande edificio nella midtown, insieme a CBS, Marvel, Simon & Schuster, Viacom, dentro una struttura che assomiglia più a una startup che a una casa di produzione cinematografica. Nel frattempo, i dipendenti diventano più di cento, età media 30-40 anni, sparsi tra Londra, Los Angeles, Manhattan. Fino al 2016, cioè nei suoi primi quattro anni di vita, A24 si limitava a comprare e distribuire film. Ma già s’intravedeva la cifra “autoriale”, l’idea di mettere su un listino riconoscibile, la capacità di trasformare attraverso un marketing innovativo e aggressivo dei film eccentrici o improbabili in fenomeni di culto. Per esempio, “Spring Breakers”, di Harmony Korine, uscito anche da noi, ma sfigurato dal titolo della distribuzione italiana, “Una vacanza da sballo”, più da cinepanettone che da opera off-indie. “Spring Breakers” era un estenuante videoclip coi colori saturi e acidi, un po’ di trama qui e là, ragazzine in bikini e passamontagna fucsia, tra cui l’eroina Disney, Selena Gomez, e James Franco, gangster con dentatura d’oro, mitra, treccine che su un pianoforte bianco a coda intona la struggente “Everytime” di Britney Spears. Puro A24. Fu infatti il loro primo grande successo, iniziando da lì l’espansione, passando qualche anno dopo dalla distribuzione alla produzione. 


Sembra la solita storia di ascesa folgorante delle imprese siliconvalliche, come Netflix. Però qui a prima vista manca la trovata, l’invenzione, siamo anzi in pieno Novecento, produrre, comprare, distribuire film, come si è sempre fatto. Ma la sola idea di resuscitare le pellicole arthouse-underground agli occhi dei millennial, un target che andava al cinema solo per i grandi blockbuster o i supereroi della Marvel, sembrava un’impresa folle e disperata. A24 è riuscita a trasformare i film d’autore, il segmento più decrepito della cultura visiva nell’èra di TikTok, in qualcosa di attraente, cool, trendy. Ha creato attorno a queste opere uno straordinario effetto-comunità, come ai tempi della vecchia cinefilia, delle cinematheque, delle sale “fuori circuito”, dove si andava a vedere film oscuri e sovversivi, con quel gusto clandestino delle opere per pochi adepti. Ma ha grattato via la dimensione catacombale. La patina di alienazione. La zavorra della vecchia controcultura. E la nicchia si è fatta glamour, scintillante, instagrammabile. Essere parte del culto della A24 significa entrare nella coolness cosmopolita di questi anni, come Sofia Coppola, che su Vogue si dichiara entusiasta di realizzare il suo biopic su Priscilla Presley con A24, “uno studio che s’impegna davvero a favore dell’esperienza cinematografica”. 


Esperienza è il termine chiave. A24 non vende film ma “esperienze”, come i ristoranti gourmet coi loro percorsi emozionali e le esperienze sensoriali. Naturalmente, per scrivere questo pezzo mi sono iscritto alla newsletter di A24, ed è qui che effettivamente “l’esperienza A24” prende forma. Posso diventare “Card Carrying Member” o “Close Friend” di A24 su Instagram, ottenere il “Vip treatment” e una serie di benefit, come l’accesso prioritario agli “IRL events” di A24, eventi che hanno luogo nel mondo reale, al di fuori di quello digitale. Nello shop del sito, invece, è quasi tutto sempre “sold out”. Ma potrei essere avvertito (come “Close Friend”) per quando la mia felpa col cappuccio A24 tornerà finalmente disponibile. Perché non è una questione di soldi, ma di fedeltà. I gadget subito introvabili sono segno d’inequivocabile esclusività, come i sei mesi di anticipo minimo per prenotare una cena all’Osteria Francescana. I film A24 diventano un universo espanso di news, articoli, gadget, prodotti ancillari. Proprio come dalle balene di Melville, da “The Whale” si estrae di tutto: podcast con Brendan Fraser che parla della sua ossessione per “Ratatouille”, una colonna sonora naturalmente in vinile che posso comprare solo sul sito di A24, una fanzine dedicata al culto di Fraser negli anni Novanta, quando era un aitante maschione di Hollywood, che fa il verso all’estetica patinata dei telefilm tipo “Beverly Hills 90210”. Il film innesca un merchandising permanente (ma guai a chiamarlo così), come nel sistema Disney o Pixar, ma con gli hipster al posto dei bambini. Posso comprare la boule de neige del “Sundance” in miniatura, o il mio set di “dita a forma di hot dog”, come gli umani degli universi paralleli di “Everything Everywhere All at Once”. Sarebbe anche bello un parco a tema “indie”, coi pulmini Wolkswagen T1 che portano le famiglie disfunzionali in tour tra i set e gli attrezzi dei film A24. Nel frattempo, gli oggetti di scena di “Everything Everywhere All at Once”, primo film A24 a superare i cento milioni di incasso, vengono messi all’asta per donare i profitti al Transgender Law Center, all’“Asian Mental Health Project” e ai lavoratori delle lavanderie a gettone (c’entra la trama del film, ovviamente, ma anche la politica dell’inclusività, un pilastro della filosofia A24).

 

E’ sempre un fatto di tempismo. La scalata di A24 è partita nel momento giusto, sfruttando evidentemente anche il vuoto improvviso lasciato dall’impero di Weinstein. Con l’uscita di scena dell’orco cattivo di Hollywood si entrava in un’altra epoca, un’epoca praticamente perfetta per la politica giovane e inclusiva di A24. Non è certo un caso che il loro primo grande successo agli Oscar, la statuetta come miglior film per “Moonlight”, premiato anche un po’ a sorpresa, arrivi nel 2017, l’anno del MeToo. Per la solita ironia della sorte anche Weinstein aveva cominciato ribaltando il cinema indipendente degli anni Novanta con la sua Miramax e la scoperta di autori come Soderbergh o Tarantino. Ma, è chiaro, c’è sempre qualcuno più indipendente di te. “Moonlight” non era solo il primo film prodotto da A24, ma anche il primo film Lgbt con un cast di soli attori neri, un atto d’accusa verso la mascolinità tossica, un grande romanzo americano sulla diversità, visivamente molto accattivante, praticamente un manifesto della nuova èra. Un passaggio epocale. I prodotti culturali di minoranza diventavano l’establishment dell’inclusività, e A24 si prendeva anche gli Oscar. Jennifer Venditti, responsabile dei loro casting, raccontava in un’intervista uscita su Rivista Studio, come uno dei punti fermi dell’azienda è subito stato l’abbandono dei “modelli standardizzati di bellezza”: “Non vogliamo persone comuni che sembrino modelli, ma volti differenti, corpi non omologati”, una strategia ormai adottata da molte campagne pubblicitarie per millennial (però anche i casting di Fellini erano così, un esercito di freak, donnoni e facce improbabili che sfilava nel suo ufficio di Cinecittà in cerca di un ingaggio, solo che non sapevano di essere “corpi non omologati”). 

 
Cool, inclusiva, artistica, sensibile alle diseguaglianze, con un merchandising à la Star Wars. La A24 ha messo in piedi un impero, superando la vecchissima opposizione tra cinema indipendente e establishment. Viene da chiedersi come mai non sia possibile fare qualcosa di neanche vagamente simile nel cinema di casa nostra, con tutti gli autori che abbiamo a disposizione (almeno cento, come ricorda l’omonima sigla a difesa della categoria, “100autori”). Si è tentato qualcosa del genere con i fratelli D’Innocenzo, mettendo insieme Gucci e Pasolini, glamourizzando ove possibile la borgata romana, instagrammando il disaggio-dee-periferie. Ma la cosa non regge. Nessuno andrebbe in giro col cappellino di “Favolacce”. E i D’Innocenzo Brothers per primi, come anche gli altri novantotto autori, vedrebbero con sdegno l’intrusione del merchandising nella “creazione artistica” che sempre deve restare “libbera” dai condizionamenti del mercato. La riconoscibilità di A24 è invece più forte di quella dei registi. Si dice “un film A24”, come ieri si diceva un Fellini, un Kurosawa, un Buñuel, o oggi una serie Amazon, Sky, Netflix. Le logiche industriali (che indipendenti o meno, sempre industriali sono) prevalgono sulle manie e le ossessioni del regista, abbandonando anche dalle parti del cinema d’arte la prospettiva romantica dell’autore solitario contro il sistema. Noi invece siamo ancora fermi qui. L’autore come punto di riferimento, sempre più importante della strategia produttiva che gli sta intorno (chi conosce i nomi delle case di produzione italiane, il loro listino, le strategie di comunicazione?). Magari esordiente con opera prima a cinquant’anni, dunque diversamente giovane ma con una sua idea di cinema, sprezzante dei circuiti commerciali, coccolato dalla nostra grande A24 di Stato.

 

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