i premi a los angeles
L'Oscar dell'inclusione: così Hollywood si rifà il trucco
Con “Everything, Everywhere, All at Once”, l’Academy torna al passo con i tempi. Via i jet inquinanti di Tom Cruise, ecco il film molto giusto e tanto sensibile
Il verdetto si sapeva ma resta la portata epocale. Quelli di ieri sera non erano solo degli Oscar, ma una specie di regolamento di conti. Da una parte il cinema dei vecchi boomer, Spielberg (76 anni), James Cameron (68), Tom Cruise (60). Dall’altra, il triplete magnifico dei tempi nuovi, “diversity, equity, inclusion”, un nuovo cinema paraculo, sensibile, instagrammabile, sintonizzato sui ritmi di TikTok e le battaglie delle nuove generazioni. Un cinema dove lo spirito di John Ford evocato da Spielberg, o l’ombra dei vecchi film di Hollywood o i jet da caccia e i piloti coi Ray-Ban a goccia, puzzano di Novecento, colonialismo, mascolinità bianca e tossica.
“The Fabelmans” e “Top Gun Maverick”, poi, sono anche due grandi omaggi alla sala cinematografica (celebrata da Tom Cruise in persona, prima di farci vedere il film), cioè un altro reperto archeologico del secolo scorso. E tra difendere il cinema in sala e difendere l’inclusività non c’è storia, ovvio. Quelli che “non ha vinto il miglior film”, quelli che “è assurdo non dare un premio a Spielberg”, quelli che guardano con comprensibile perplessità a un film asiatico che ruota intorno a una lavanderia a gettoni dove si intrecciano vari universi paralleli (tra cui uno in cui gli umani hanno dita a forma di hot-dog) non colgono evidentemente il salto di specie, il cambio di paradigma, l’ingresso in una nuova èra (e sullo sfondo la straordinaria capacità di Hollywood di adeguarsi in fretta, rinascere sempre, buttando all’aria i vecchi, per coccolarsi casomai gli spettatori di domani). Lì dove lo spettatore boomer vede aerei da caccia della Marina americana sfrecciare in cielo, e ripensa magari con languore maschile o femminile al fascino vintage dei piloti, il millennial vede simboli fallici molto “cringe”, prepotenza occidentale, mascolinità aggressiva, tantissimo inquinamento gratuito, forse scie chimiche. E no, “Top Gun Green”, anche con tutta la fantasia, non si può fare.
Gli Oscar di ieri sera hanno capitalizzato una nuova fase iniziata nel 2017, l’anno del #MeToo e dell’Oscar a “Moonlight”, con il lapsus davvero molto freudiano del premio assegnato per errore a “La La Land”, cioè alla vecchia Hollywood. “Moonlight” era il primo film lgbtq con un cast di soli attori neri, un atto d’accusa verso la mascolinità tossica, un Great American Novel sulla diversità, visivamente molto accattivante, praticamente un manifesto, un libretto di istruzioni per film e serie a venire. Sei anni dopo, ecco “Everything, Everywhere, All at Once”, una specie di Marvel Cinematic Universe dove non si fronteggiano il bene e il male, ma l’identità fluida e quella fissa. Un “Matrix” asiatico con citazioni da “Ratatouille”. Un film progettato e venduto in puro stile “A24”, la casa di produzione indipendente che da “Moonlight” in su sta cambiando le regole di Hollywood (si chiama così in omaggio alla nostra Roma-L’Aquila, uscita 16 del Gra). Ora gli oggetti di scena di “Everything, Everywhere, All at Once” vengono messi all’asta per onare i profitti al Transgender Law Center, all’“Asian Mental Health Project” e ai lavoratori delle lavanderie a gettone. C’entra il film, certo, ma c’entra la politica dell’inclusività, un pilastro di A24.
Gli Oscar sono sempre stati attenti al botteghino e non solo al prestigio dei film. Non sono Cannes, Venezia, Berlino o il Sundance. Belli o brutti, da “Via col vento” a “Titanic”, i film con tante statuette erano quasi sempre anche grandi incassi in tutto il mondo. L’Academy celebrava il film, ma anche la potenza economica di Hollywood. In questo passaggio storico, invece, conta di più comunicare l’immagine di un’industria inclusiva, attenta alla diversità e alla fluidità, che ha saputo espellere le tossine di Weinstein, sostituendolo con qualcosa di completamente diverso. Come negli anni Trenta, quando al culmine di scandali, morti per droga, eccessi e tutte quelle cose che racconta “Babylon” di Chazelle, Hollywood chiamò l’ultra-conservatore Will Hays per rifarsi il trucco, nascondere lo sporco sotto il tappeto, e riportare le famiglie al cinema. In pochi dalle nostre parti hanno visto “Everything, Everywhere, all at once”, o “The Whale”, costruito sul riscatto di Brendan Fraser, ex maschione aitante della Hollywood anni Novanta che si ripresenta trent’anni dopo dilatato in una tuta di carne di 140 chili, con ruolo ovviamente strappalacrime. Però tutti sono più o meno d’accordo che siano tutti film più giusti, sensibili, attenti alle nuove tematiche degli aerei inquinanti di Tom Cruise o dei fantasmi cinefili del vecchio Spielberg.