Ceneri di cinema
I comprimari della grande illusione, che più di ogni arte ha affinità con la morte, diventano protagonisti nell’“Ultima innocenza” di Morreale
Non è un pensiero granché originale, quando si guarda un vecchio film, dirsi che tutti quelli che si agitano sullo schermo sono morti. Uno se lo può dire anche aprendo un qualsiasi libro di storia, ma naturalmente il cinema fa un altro effetto perché nel cinema i morti sono lì davanti a noi, li vediamo e li ascoltiamo mentre erano vivi. Qualche anno fa venne fuori un breve video del primo Novecento in cui a un certo punto si vedeva un giovane uomo elegante scendere le scale di un palazzo, e quell’uomo era Marcel Proust: il ritrovamento di un baule di lettere inedite non avrebbe causato lo stesso effetto di grata stupefazione. La carne, le ossa, i corpi: è questo che ci attrae, non le anime. E’ questo che vuol dire esistere, e non è soltanto l’opinione di noi moderni secolarizzati, se – poi basta con le citazioni – la stessa sete di corporeità affiora nel Paradiso di Dante, tra i beati che esultano per la promessa della resurrezione della carne: “Tanto mi parver sùbiti e accorti / e l’uno e l’altro coro a dicer ‘Amme!’, / che ben mostrar disio de’ corpi morti”. Il disio de’ corpi morti… Forse è per questo che nell’orgia di vecchi film che mi capita di vedere, adesso che quasi tutti i film del mondo sono a portata di mano, mi fisso soprattutto sulle facce e sui corpi delle comparse, metto il film in pausa e cerco in rete notizie su questi semisconosciuti, soprattutto sulle disgrazie che hanno amareggiato gli anni che hanno passato lontano dallo schermo, e poi su come hanno lasciato la vita.
Qualche anno fa venne fuori un breve video del primo ’900 in cui compariva Proust. La carne, le ossa, i corpi: questo ci attrae, non le anime
Emiliano Morreale soffre della stessa mia malattia, ma in confronto a lui io sono sano, nel senso che quella che in me si manifesta come curiosità – cercare i fili che collegano il cinema e la vita, i ruoli interpretati nella finzione e quelli patiti nella realtà – in lui si presenta come ossessione.
I capitoli-saggi di L’ultima innocenza, da poco uscito per Sellerio, sono costruiti attorno a tre costanti: un io narrante che è ma soprattutto non è l’io dell’autore (“Il gioco di partenza di questo libro – scrive Morreale nella nota che chiude il volume – era semplice: libertà di invenzione nella parte in prima persona, con un narratore più o meno fittizio, e divieto di invenzione nelle biografie storiche”); un certo numero di film per varie ragioni memorabili (e tra queste ragioni non c’è mai davvero la qualità artistica: l’interesse, la molla che scatena l’ossessione va cercata altrove); gli esseri umani reali – attori, sceneggiatori, registi – che appaiono in quei film, intorno ai quali l’io narrante monta la propria ossessiva quête.
I capitoli-saggi di Emiliano Morreale sono costruiti attorno a film per varie ragioni memorabili (non c’è mai la qualità artistica)
Così abbiamo: (1) Giuseppe Greco, figlio del capomafia Michele, fan sfegatato di Martin Scorsese e regista, goffo ridicolo regista in proprio. Morreale lo fa entrare in scena così, mentre prende a prestito una copia di Cape Fear per proiettarselo a casa: “Quando arrivammo davanti al Lubitsch [il cineclub super-periferico con il quale l’io narrante collabora, chiamato così quasi per scherzo] nel primo pomeriggio, sotto gli occhi del proiezionista impassibile trovammo uno sconosciuto basso e sudaticcio che chiudeva le scatole con le pellicole nel bagagliaio di un’auto, saliva nella vettura e si allontanava dopo averci lanciato un’occhiata sospettosa”. (2) Il regista polacco Michał Waszynski, impostore internazionale che dopo la guerra, a Roma, s’inventa un nuovo passato e una nuova vita di lussi che incrocia in maniera tragicomica la vita di Orson Welles. E’ il capitolo in cui Morreale ha l’acume di citare per esteso una voce della Treccani sulla regione d’origine del regista, la Volinia, che pensavo si fosse inventato lui perché sembra scritta dal Nabokov di Pnin, e che invece è una voce reale, scritta nel 1937 dal geografo – ma abile scrittore, anche – Giuseppe Caraci: “Il terreno vi è infatti assai più mosso, a superfici ondulate, ricoperte da strati di löss prima, e più a S. dal tipico ernozem, con valli anche abbastanza profonde, nelle quali i fiumi, scendenti verso settentrione al Prypec secondo un decorso pressoché meridiano, divenuti più torbidi, snodano i loro meandri incassati…”: che delizia! (3) I destini incrociati di Douglas Sirk e del regista preferito di Goebbels, Veit Harlan, quello di Süss l’ebreo, “il film più infame della storia”. (4) Alberto Grifi, il regista di quel mitico film-verità che è Anna (“Alberto – così lo commemora il prete nel giorno del suo funerale – ha avuto il dono più grande, il dono della carità. Di più: ha compiuto un atto di carità, e quell’atto di carità si chiama Anna. Anna racconta di una ragazza incontrata qui vicino, a piazza Navona, che viene accolta e curata […]. Le immagini di quel film mi hanno toccato; io non ho conosciuto Alberto, ma ho conosciuto questo suo gesto, di questo vi posso parlare e di questo voglio ringraziarlo”). (5) Una discesa nel maelström del cinema porno. (6) un tentativo di dare carne al fantasma della diva del cinema muto Dorothy Gibson.
Il figlio del boss Michele Greco fan di Scorsese, la discesa nel maelström del cinema porno, il tentativo di dare carne al fantasma di una diva del muto
Il racconto-saggio (5) è forse quello meno appariscente del libro ma secondo me è il più bello, non solo per l’amarcord pornografico, che è memoria comune e diffusa, ma anche e soprattutto per gli scorci di una Viterbo notturna molto gotica e per il resoconto comico di un viaggio Roma-Viterbo in macchina con autista psicotico. Il racconto-saggio (6) che chiude il libro è invece il più ambizioso e articolato, ma anche quello in cui la sovrapposizione tra le vicende del narratore e quelle dell’attrice sulle tracce della quale il narratore si è messo appare più sforzata. Ballerina di cabaret, modella, volto celebre sui cartelloni pubblicitari, Dorothy Gibson esordisce nel cinema all’inizio degli anni Dieci. Nell’aprile del 1912 s’imbarca con la madre e chaperonne sul Titanic, sopravvive al naufragio, e non appena sbarcata viene arruolata per il docu-film Saved from the Titanic e diventa famosa. Potrebbe essere l’avvio di una brillante carriera, invece no. Abbandona il cinema, comincia a prendere lezioni di canto, ha una serie di relazioni sbagliate con uomini potenti del cinema, si trasferisce a Parigi, sfiora da “bas-bleu consumata” la società intellettuale dell’epoca, come in Midnight in Paris, frequenta dignitari nazi-fascisti. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale si trova in Italia con la madre. Nel 1944 finisce a San Vittore in quanto cittadina di una nazione nemica. Riesce a scappare, o la fanno scappare di proposito (è una spia? Fa il doppio gioco?), raggiunge il suo ultimo amante a Parigi, si perde con lui nell’Europa del dopoguerra, muore d’infarto nel 1946. Come negli altri capitoli del libro, l’inchiesta sulla vita di Dorothy Gibson si alterna alla riflessione del narratore sulla propria vita, una riflessione propiziata dalla sospensione coatta della pandemia, e a una sottotrama un po’ occasionale intorno a un vecchio amico che riaffiora, molesto, dal passato. Alla fine, le linee del racconto in qualche modo s’incontrano, e dalla vicenda della Gibson il narratore ricava (o potrebbe ricavare, se solo fosse meno pigro) un ammonimento per sé, per la propria vita: “Non potevo aspettarmi molto di più: non avevo ottenuto nulla, ma neanche rischiato nulla. Non era in fondo gran cosa, come disillusione, e mi dispiaceva non aver avuto qualcosa di meglio in cui fallire. Povera Dorothy, davvero. Aveva attraversato una schiera di uomini ambigui e vili; dopo produttori, spie, giornalisti, da morta le era toccato un indagatore falso e distratto, alla ricerca di un passatempo. Non era una vittima. Non aveva capito e non era stata capita, non era stata nemmeno amata, ma aveva amato. Non era stata felice, era invecchiata presto e morta giovane, ma aveva amato. Forse aveva qualcosa da insegnarmi, che non avevo proprio voglia di imparare”. E’ il problema che occorre affrontare ogni volta che si decide di riferire le storie degli altri senza nascondersi, anzi raccontando in filigrana la propria, o quella di un io che ci assomiglia: si è tentati di cercare il rispecchiamento, la cifra che rende simili destini apparentemente tanto diversi; oppure, come in questo caso, dai successi e dagli errori altrui si deduce una lezione morale; mentre invece, il più delle volte, dalle vite degli altri non c’è proprio niente da imparare.
Tutti questi capitoli-saggi sono stati scritti per occasioni diverse, e non c’è niente di sostanziale che li colleghi se non qualche accidentale agnizione (si apprende a un certo punto che Grifi ha collaborato a un documentario di Thomas Harlan, il figlio di Veit; e il nome del “mago” Welles ritorna per ragioni diverse in più punti del volume). Ma a me pare che l’unità del libro, e anche la sua bellezza, vada trovata soprattutto nel sentimento che ne ispira quasi ogni pagina, un sentimento non troppo diverso da quello che ho cercato di descrivere sopra accennando all’immagine di Proust e ai versi di Dante.
Gli scrittori rivivono nei libri, i pittori nei quadri, gli eroi nei monumenti; ma i registi? Gli attori? Macchie di luce destinate a sparire
Arte che più di ogni altra restituisce l’illusione della vita, il cinema ha un’affinità elettiva con la morte, la dissoluzione delle cose. Gli scrittori rivivono nei loro libri, i pittori nei loro quadri, gli eroi nei monumenti; ma i registi? Gli attori? Macchie di luce su uno schermo, destinate a sparire una volta che la luce si spenga. Sarà anche per questo che tutte le storie raccontate nell’Ultima innocenza sono, in modi differenti, tragiche: il cinema è la grande illusione che non solo tradisce le attese di chi lo fa (sceneggiatori, registi, attori) ma depista destini che – se avessero preso altre strade, strade più normali – avrebbero potuto forse essere felici. Invece… Invece tutto e tutti in questo libro sembrano essere avvolti in una nuvola di disgrazia, non solo i protagonisti ma anche i comprimari, le figure di contorno appena accennate: Franco Franchi che si ammala e muore dopo un mesto tentativo di rientro in televisione, l’intero cast di Dybbuk spazzato via dai nazisti, l’intero cast di Anna, le povere comparse del porno, Vincenzo Mazza ammazzato da Claudio Volonté, Claudio Volonté suicida in carcere, e poi tutti i morti precoci al fronte della Seconda guerra mondiale, o in Lager, il figlio di Douglas Sirk scomparso sul fronte sovietico… E anche al di là delle storie tragiche dei singoli, l’impressione che resta, una volta chiuso il libro, è quella di una danza macabra popolata da ombre, impressione a cui collabora l’abilità di Morreale nel ritrarre o nel creare – la linea è sottile – i caratteri: per esempio in questo raggelante ritratto di un medico di provincia cinéphile: “Innestata la propria passione sulle competenze professionali, era in grado di diagnosticare i segni della malattia e della fine prossima sui corpi degli attori in decadenza. Le macchie di vecchiaia sull’epidermide delle mani di John Wayne nel suo ultimo film, Il pistolero, lo ipnotizzavano. Gary Cooper, in Mezzogiorno di fuoco, era visibilmente tarato dal cancro al colon; certo, sarebbe vissuto ancora quasi dieci anni, ma in Cordura la sua apparizione dava ormai una stretta al cuore”.
“Che bel desiderio di morte c’è in Opfergang”, dice Goebbels a Harlan a proposito del suo film più recente, uscito mentre si comincia a capire che la Germania perderà la guerra. Sarebbe eccessivo dire che un desiderio di morte cova anche sotto la superficie di questo libro; ma è un fatto che l’ossessione dell’io narrante si colora spesso di tinte mortuarie, e che, nella sua dedizione a quel simulacro di vita che è il cinema (il cinema esclusivamente visto, non scritto né recitato: è sintomatico che nell’unico caso in cui il narratore ha una parte d’attore la sua scena venga tagliata al montaggio), egli manifesta una certa renitenza alla vita reale: e il fastidio, il disprezzo anche, per individui in carne e ossa così poco interessanti e amabili a paragone di quelli contemplati sullo schermo. E’ quanto suggeriscono le ultime pagine del libro, in cui il fantasma di Dorothy Gibson lascia la scena alla molto carnale “ufficio stampa di una casa editrice che pubblica saggi universitari dietro compensi esosi, una gioviale ragazza dai ricci biondi, appena laureata”. Niente delude come gli esseri umani. Ma anche la misantropia riesce simpatica, in questo libro originale, intelligentissimo e perfettamente congegnato.
Politicamente corretto e panettone