Nanni Moretti è tornato e per farsi notare fa il regista in crisi su tutto
“Il sol dell’avvenire” nelle sale domani, e poi a Cannes: il Pci anni 50, le canzoni e i vecchi film. Si ride, qualche volta. Perlopiù di sponda
Nanni Moretti è tornato. Si intende: a occupare lo schermo dei suoi film. Una volta era un rimprovero – “Nanni, scansati e fammi vedere il film” (copyright Dino Risi). Dopo l’inerzia drammaturgica e l’insufficienza attoriale di “Tre piani” (dal romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo) ritrovare il faccione di Nanni Moretti al centro di “Il sol dell’avvenire” – nelle sale domani, e poi a Cannes – un po’ rassicura.
Dura poco. Poi scatta la sindrome “mi si nota di più se giro un film e basta, oppure se faccio un film su un regista che sta girando un film?”. Moretti non è come Woody Allen, un film l’anno nella buona e nella cattiva sorte fino a oltre gli 80. Sfacciato agli inizi, da un po’ sta con i tormentati. “Il sol dell’avvenire” racconta un regista in crisi. Artistica, politica, familiare, finanziaria, e pure un po’ epocale – l’artista non ne ha mai abbastanza.
Il regista quando è in crisi gira un film ambientato nel passato. Sulla rivolta d’Ungheria del 1956, duramente repressa dall’Unione Sovietica. Vista dal Quarticciolo: la locale sezione del Pci, con Silvio Orlando giornalista dell’Unità, ha invitato il circo ungherese Budavari – ma già gli abitanti sono contenti perché i comunisti hanno portato l’elettricità in casa. Qualche spettacolo, poi lo sciopero di solidarietà per i compagni in rivolta. Mentre il Pci sta con l’Urss, faro e speranza per la classe lavoratrice.
E’ il pretesto per un sogno controfattuale. Ah, se tutto fosse andato diversamente. Ah se Togliatti si fosse ribellato. Ah, se Nilde Iotti lo avesse convinto. Ignaro di tutto, un giovane assistente chiede se davvero in Italia c’erano 2 milioni di comunisti. Tra lo sdegno, il maturo pubblico di riferimento viene individuato con precisione.
Moretti fa Nanni Moretti. Il suo sogno controfattuale funziona come diceva il vecchio Freud. Idiosincrasie personali del regista mischiate con pezzi di vecchi film morettiani, ahimè a volte tragicamente spiegati. La scena di Michele Apicella che torturava il critico immobilizzato leggendogli la recensione di “Henry, pioggia di sangue” qui diventa una scena intera. Quasi un capitolo.
Moretti irrompe su un set, vede un attore che punta la pistola verso un altro attore, li ferma e spiega che la violenza è una cosa brutta. In “Sogni d’oro”, il critico invocava “il bracciante lucano e la casalinga di Voghera”. Moretti convoca Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio, tutti sul set a dargli ragione.
Si ride, qualche volta. Perlopiù di sponda. Quando Nanni Moretti si avvolge nella copertina all’uncinetto di “Aprile”. Quando ricordiamo Silvio Orlando che in “Palombella rossa” urlava come un ossesso a bordo piscina “marca Budavari, marca Budavari” (Imre Budavari, famoso pallanuotista). Quando va all’appuntamento – telefonatissimo – con i dirigenti di Netflix che, poveretti, gli chiedono uno straccio di trama e un personaggio che cambia (eresia, nel mondo morettiano).
E quando proprio non capisce che la moglie e produttrice Margherita Buy lo vuole lasciare, ma finora lo ha confessato solo all’analista. E allora cantano, in macchina. Cantano e ricantano, a volte ballano, con tutta la troupe. La figlia musicista si fidanza con l’anziano attore polacco Jerzy Stuhr: deve esserci un Edipo (o forse un finanziamento) che a noi sfugge.
Lo spiantato Mathieu Amalric (sarebbe il coproduttore francese) dorme sul set anni 50, dimenticando auricolari e spazzolini elettrici. L’attrice Barbora Bobulova si presenta sul set con i sabot (e scatta la tirata sulle scarpe). Vorrebbe cambiare qualche battuta del dialogo, “come sul set di Cassavetes”. Vietatissimo: Nanni Moretti fa la faccia feroce dell’Urss contro l’Ungheria.