Serie Tv
Finalmente una serie su Netflix che non sembra già scritta con ChatGPT
"La famiglia di diamanti" è scritta da Rotem Shamir, che viene dalla seconda stagione di “Fauda”, con Yuval Yefet. Tra pestaggi, feste e cappelli di pelo l’originalità della serie viene dall’alternanza “umana” dei toni
"Parliamo la lingua dei diamanti dal 1447”. Un gran bel biglietto da visita per l’antico – ma ancora in attività – quartiere di Anversa dove si lavorano i diamanti. Certe ambientazioni più di altre sono ricche di storie. E in questo caso di attrattive per gli spettatori che hanno amato “Shtisel”: prigionieri volontari e felici, per svariate ore, di una famiglia chassidica di Gerusalemme. Gran cappelli di pelo (esistono speciali contenitori da viaggio, se ne vedono all’aeroporto Ben Gurion), lunghi riccioli, renitenza ai vaccini – nel loro quartiere di Brooklyn scoppiò anche un focolaio di rosolia.
I copricapo di pelo – lo abbiamo scoperto guardando su Netflix “La famiglia dei diamanti” – vengono protetti dal maltempo con custodie di plastica trasparente. La serie inizia con un suicidio, e un funerale sotto la pioggia, dopo un’accesa discussione sul loculo che spetta al defunto (i futuri vicini potrebbero non gradire, e infatti non gradiscono).
Yanki Wolson si è sparato in ufficio, lasciando a casa un prezioso orologio con diamanti. Da Londra arriva il fratello Noah, che ha lasciato la famiglia quindici anni prima. Non voleva saperne della ditta familiare. Come da tradizione, nessuno gli ha chiesto cosa gli sarebbe piaciuto fare da grande, il lavoro dei diamanti si tramanda di padre in figlio (qui nel business c’è anche una figlia, ma l’eccezione viene sottolineata).
Noah subito prende atto, più per forza che per amore, che il distretto dei diamanti non è più quello di una volta. “Ci sono ebrei che fanno gli idraulici, e ne ho qualcuno giù in cucina”, spiega il proprietario del ristorante dove porta il figlio ragazzino a mangiare il cholent, lo spezzatino di shabbat.
Non si guadagna come in passato, qualcuno fa traffici con Dubai, e neanche la famiglia Wolson è più quella di una volta. A parte il vecchio patriarca, ignaro di tutti i guai – e il fratello che ha dovuto, secondo la legge, prendere in moglie la promessa sposa che Noah ha praticamente abbandonato sull’altare – le regole religiose e commerciali sono spesso infrante.
Il suicida Yanki si dedicava alle scommesse, con scarso successo. Appena Noah si dà un po’ da fare per levarsi gli scagnozzi di torno, scopre che c’è molto altro. Un milione e mezzo di euro non pagati, la banca che non fa più credito, due settimane per rimettere a posto tutto – sempre senza dire nulla al nonno.
“Onore, silenzio, qualche sussurro” erano le regole del gioco. Ora non più, anche perché nel business sono entrati gli albanesi, come apprendiamo da un’inchiesta sul riciclaggio condotta da una testarda poliziotta al porto di Anversa. A differenza delle banconote, i diamanti occupano poco spazio e non marciscono. “Liquidate tutto, siete finiti” è il consiglio, non del tutto disinteressato, degli ex soci in affari.
La produzione degli otto episodi è belga, il cast misto. Ma “La famiglia dei diamanti” è scritta da Rotem Shamir, che viene dalla seconda stagione di “Fauda”, con Yuval Yefet. Se serve una scena d’azione non si tirano indietro: l’originalità della serie – una delle poche su Netflix che non sembri già scritta con ChatGPT, l’intelligenza artificiale tanto temuta dagli sceneggiatori in sciopero – viene dall’alternanza “umana” dei toni. Ai pestaggi, numerosi e sicuramente non kosher, si alternano le ricorrenze ebraiche, festeggiate dalla famiglia che pare compatta e non lo è più tanto.
Noah ha un po’ troppi talenti da combattente, per averli imparati dall’oggi al domani. Della sua vita londinese all’inizio sappiamo poco. Finché arriva la suocera, e con una certa fermezza gli ricorda che lui avrebbe un’altra famiglia, Con i suoi problemi da risolvere e affari da sbrigare.
Politicamente corretto e panettone