Cannes 2023
A Cannes il mega western di Scorsese, DiCaprio e De Niro. Poi l'esordio di Joanna Arnow
“Killers of the Flower Moon”, a ottobre in Italia, dura quasi tre ore e mezzo e suona un po’ esagerato: grande tecnica, ma gli attori finiscono per somigliarsi tutti. Tra i debuttanti c'è invece la giovane promessa di Brooklyn, una Lena Dunham rediviva
Girare film allunga la vita, la schiera di ottantenni o giù di lì festeggiati al Festival di Cannes è lì per dimostrarlo. Orson Welles diceva: “Il cinema è il più bel giocattolo che un bambino cresciuto possa sognare”, e allora perché riporre il giocattolo in soffitta, rinunciando a palmette e leoncini alla carriera? Dopo Michael Douglas e Harrison Ford – Ken Loach è atteso venerdì dopo Marco Bellocchio – è arrivato Martin Scorsese. Portando con sé, fuori concorso, un western di quasi 3 ore e mezzo: “Killers of the Flower Moon”. Come sentiamo dire nel film – il suo ventisettesimo – “uno scherzo architettato dal buon Dio ai danni degli uomini bianchi”. Dopo tanto peregrinare dalle Grandi pianure all’Oklahoma, i nativi americani della tribù Osage – chiamati “indiani” nel film – scoprono il petrolio nella loro riserva. Obbligatoria la scena del grande spruzzo nero, che negli anni 20 fa diventare i vinti dei morti di fame clamorosamente ricchi. Bianchi e banchieri provano una certa invidia, malamente celata dai titoli dei giornali – e dai cinegiornali dell’epoca che mostrano automobili e pellicce.
Dopo il malriuscito ringiovanimento degli attori in “The Irishman” (meglio “Indiana Jones”, le tecniche fanno progressi) Martin Scorsese mette al lavoro i prediletti Robert De Niro e Leonardo DiCaprio. Che un po’ esagerano, soprattutto Bob che tende a recitare con la mascella (e un paio di occhiali da contabile del male). Leo da tempo ha perso la sua bellezza efebica, e gli sta in scia. Grande tecnica, ma poi finiscono per somigliarsi un po’ troppo. Tra loro, “faccia di luna” (soprannome nostro, tanto Lily Gladstone è placida e serafica anche nel dramma): di puro sangue Osage, diventa la moglie del suo ex autista DiCaprio, e passeggia per la città con eleganti coperte adibite a cappottino. C’è qualche momento etnologico, danze e funerali. E parecchi delitti portati all’attenzione della Casa Bianca – Edgar J. Hoover ne approfitterà per perorare la sua causa: un progetto di polizia federale, con la sigla Fbi. C’è il Martin Scorsese che denuncia la rapacità del capitalismo americano, e quello che si diverte. Il film uscirà in Italia a ottobre, nel finale il regista compare tra gli interpreti di un serial radiofonico – con rumorista e orchestra – che incornicia la triste e dolorosa istoria.
Un Festival di grandi nomi e di scoperte, aveva promesso il direttore Thierry Frémaux (avrebbe dovuto aggiungere: di prenotazioni fatte all’alba e di code al pomeriggio). Per allontanarci dai soliti noti, abbiamo brigato e corrotto per riuscire a vedere il debutto di Joanna Arnow, lanciata dall’Hollywood Reporter (e non solo) come la trentenne “regista di Brooklyn” da non perdere. Secondo le varie recensioni: “Divertente, intelligente, un nuovo talento”. Pareva una Lena Dunham rediviva: quella vera intanto gira storie medioevali per Netflix, un rimpiazzo poteva servire. Al cinema, è tutto un altro film. La ragazza sta quasi sempre nuda, impegnata in giochetti sadomaso che sembrano appassionare poco lei, e ancor meno il depressissimo “master” che frequenta da dieci anni. Quando arriva un nuovo amante che la fa vestire con gonnellino rosa e muso da maialino speriamo in una svolta. Ma è sempre la stessa scenetta, ripetuta con minime variazioni e intervallata da visite ai genitori e da un lavoro che sembra il peggiore del mondo. Titolo: “The Feeling That the Time for Doing Something Has Passed”. Presentato alla ex “Quinzaine des réalisateurs” (ora diventata “Quinzaine des cinéastes” che vale per maschi, femmine, e tutto quel che sta in mezzo) il film potrebbe anche vincere la Caméra d’or per il miglior debutto.