Wes Anderson (Kristy Sparow / Getty Images)

Cannes 2023

Ci siamo gustati “Asteroid City”, perché a noi Anderson piace originale

Mariarosa Mancuso

Qualcuno ha diffuso su YouTube il finto trailer del nuovo film del grande Wes: ma nulla che possa ingannare gli affezionati. Il suo dramma spaziale è magnifico in pastello, meno in bianco e nero. Parte la gara anche per i migliori attori

Qualcuno mette alla prova l’intelligenza artificiale cercando di ricavarne un testo degno di Jane Austen (il New York Times, e svariati altri siti che celebrano la scrittrice). Qualcun altro – saputo che Wes Anderson stava lavorando a un film di fantascienza – ha diffuso su YouTube il finto trailer “The Galactic Menagerie”. Uno “Star Wars” girato alla maniera del magnifico Wes: galassia pulita e ordinata, a colori pastello; inquadrature simmetriche; gli attori cari al regista, da Bill Murray a Timothée Chalamet. Nulla, naturalmente, che possa ingannare gli affezionati: Wes Anderson lo vogliamo originale. “Asteroid City”, per esempio. Presentato in concorso a Cannes, dopo che un paio d’anni fa “The French Dispatch” aveva diviso anche i fan sfegatati. “Troppa roba”, secondo gli spettatori pigri. Mentre i più avvertiti mormoravano la parola “manierismo”. Noi eravamo a favore, e abbiamo gustato anche il dramma spaziale ambientato nel deserto degli anni 50. Un gran meteorite ha scavato un cratere, e lì i giovani scienziati si danno appuntamento con progetti e invenzioni.

 

Gli attori sono arrivati fino al tappeto rosso con il pullman. Da Adrian Brody alla new entry Tom Hanks, che sullo schermo esibiva scarpe bicolori da golf, pantaloni azzurri, maglietta giallina. Arriva per prendersi cura di tre orfanelle – il genitore ha le ceneri dalla mamma in un comodo tupperware – impeccabile. Era l’èra della plastica. Fin qui tutto magnifico. Riesce meno bene il “rovescio” del film, che si rivela uno spettacolo teatrale – con tanto di commediografo che all’inizio picchia sui tasti – messo in scena a New York (per queste scene, niente colori pastello, solo bianco e nero). I colori di Wes Anderson, giallo e sabbia, tornano appena un po’ spenti nelle divise scolastiche di “Club Zero”. Lo ha diretto l’austriaca Jessica Hausner, dopo il benissimo riuscito “Lourdes” (premiato da atei e cattolici) e la fantascienza di “Little Joe”, “la pianta che rende felici”. La fede – non solo religiosa, basta l’attaccamento, purché ostinato – è il suo tema prediletto. Qui applicato al cibo, che rovina non solo il girovita ma anche il pianeta.

 

L’eterea Mia Wasikowska tiene un corso in una scuola d’élite – non precisamente collocata nello spazio, il tempo è oggi – dedicato al “consciously eating”. Vuol dire mangiare pochissimo meditando su ogni minuscolo boccone. Non tanto diverso da certe diete e da certi digiuni variamente intermittenti. Qualche genitore ha dei sospetti, altri sono alle prese con le proprie idiosincrasie alimentari. Da lì al digiuno totale c’è solo un passo. Con sette registe in gara, sarebbe strano non veder vincere una donna.

 

In ottima posizione è Justine Triet, un po’ sfavorita perché è francese, e la connazionale Julie Ducournau ha vinto del 2021 con “Titane”. “Anatomie d’une chute” è il titolo del suo film, un dramma familiare quasi tutto sviscerato in tribunale. Un marito muore cadendo dalla finestra dello chalet, tra le montagne della sua infanzia. La consorte – romanziera di successo mentre lui si è un po’ perso – lo ha seguito di malavoglia. E’ lei la prima sospettata (Giorgio Manganelli aggiungerebbe: “questo pensa la gente del matrimonio”). Anche l’unica, escludendo il figlio della coppia e il cane. Per l’attrice tedesca Sandra Huller, bravissima qui e quando fa la nazista in “The Zone of Interest” di Jonathan Glazer, il premio per l’interpretazione dovrebbe essere garantito. Settore maschile, lo vorrebbe Jude Law, che si è imbruttito, ingrassato, e (pare) impuzzolito per recitare il vorace e gottoso Enrico VIII in “Firebrand” del regista brasiliano Karim Aïnouz.

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