CANNES 2023
Nanni Moretti non piace a tutti, ma c'è un altro film che dà inappetenza
“Il Sol dell’avvenire” apprezzato dai francesi ma sgradito agli anglosassoni. Mentre il film “Pot-au-Feu” pur parlando di cucina non ci fa venire fame
I francesi amano Nanni Moretti, anche se per lui Libération ha coniato il termine “Morettisplaining” (e subito vengono in mente i gusti del gelato, lo sdegno per le espadrillas portate a pantofola – qui diventate sabot – e l’imperdonabile sentenza “ve lo meritate Alberto Sordi”, e la crociata contro la violenza al cinema). In cima alla scalinata rossa, regista e attori hanno ballato come nel film, dervisci principianti su musiche di Franco Battiato, “Voglio vederti danzare”.
Al critico del Guardian Peter Bradshaw “Il sol dell’avvenire” non è piaciuto per nulla. Una perdita di tempo, scrive, dopo aver tirato fuori il suo passato da fan. La Palma d’oro al regista per “La stanza del figlio” è sempre nel suo cuore. Anche “Mia madre” lo aveva commosso tanto tanto. Qui non trova niente a cui affezionarsi. In effetti, trattasi di pastiche iper-morettiano. “Triste solitario y final”, per citare il romanzo di Osvaldo Soriano con il detective Philip Marlowe che indaga sul declino artistico di Stan Laurel. C’è un cappio, perfino. Moretti, nei panni del regista del film-dentro-il-film, insegna a Silvio Orlando come metterci la testa dentro. Guardando la scena, abbiamo pensato: “A Cannes i francesi impazziranno”. Per gli americani di “The Hollywood Reporter”, trattasi di “a Meta-Memoir strictly for Fan”.
En attendant Alice Rohrwacher con “La chimera” – la regista non ha mai lasciato Cannes senza un premio, neanche quando portava un film sgangherato come “Lazzaro felice”, e di nuovo stamattina sulla stampa italiana si ribadiva che “sgangheratezza è mezza bellezza” – abbiamo visto “Pot-au-Feu”. Esercitazioni di cucina francese fine Ottocento, diretto dal vietnamita naturalizzato Tran Anh Hung. Pareva di leggere il “Grand Dictionnaire de cuisine” di Alexandre Dumas (in italiano da Sellerio, tremila ricette per 1.200 pagine). Per quanto uno possa essere appassionato di cucina, di salse e di fondi, della faraona spiumata e ripiena con le sue verdure brasate appena fresche di orto – e dei famigerati “ortolan”, passerotti che si mangiano con le interiora e gli ossicini, coprendosi la testa con un tovagliolo per concentrarsi sul sapore – “La passion de Dodin Bouffant” (è il titolo originale) conduce all’inappetenza. Quando poi stanno un po’ meno ai fornelli – la cuoca Juliette Binoche sviene più volte – abbiamo tutto il tempo di osservare il declino di Benoît Magimel, già constatato come marito della donna barbuta dei Vosgi, in “Rosalie”.
Manca poco alla fine del Festival, compratori e venditori sono partiti, le sale sono mezze vuote e c’è agio per guardare qualche film non strettamente comandato. Per esempio, “The Mother of All Lies”, ideato e diretto dalla regista marocchina Asmae El Moudir. Segreti e bugie di famiglia – intrecciati con le rivolte per il pane di Casablanca, che nel 1981 fecero 600 vittime – non si dicono ma si mostrano. Grazie a un plastico del caseggiato e ai pupazzetti d’argilla, tutto costruito dal vero padre della regista. C’è anche la tirannica nonna, che la sera si sedeva in strada con il bastone, non si sa mai. In casa parlava poco perché “i muri hanno orecchie” – e faceva il segno della bocca cucita e poi chiusa con una zip.
Il modellino del quartiere cresce. Tutti i vicini trovano nella loro minuscola casa, abiti e mobili riprodotti con pazienza certosina. Si tirano fuori le vecchie fotografie, la regista scopre di non averne nessuna che la ritrae ragazzina. Eppure ricorda benissimo di essere fuggita un ultimo giorno di Ramadan verso il fotografo del quartiere – palma e la spiaggia come sfondo per tutti – e di aver nascosto lo scatto nella vecchia casa che stanno per lasciare.