il foglio del weekend
Le nuove regole degli Oscar, sempre più ingabbiati
Ecco i nuovi criteri per i film, rispettosi di minoranze e “inclusività”. Un assurdo burocratese pol. corr. che renderà tutto ancora più noioso e piatto
Facciamo la prova con il film che ha vinto il Festival di Cannes, “Anatomia di una caduta” diretto da Justine Triet. Una donna regista e una donna protagonista: l’attrice è Sandra Hüller, entrata nel radar qualche anno fa con “Vi presento Toni Erdmann” di Maren Ade, da ricuperaresubito su MUBI se l’avete perso (se l’avete visto e non ricordate granché, una scena di sesso con vassoio di pasticcini vi farà tornare la memoria). Racconta una moglie sospettata di aver spinto il marito giù dalla finestra dello chalet; si scopre poi che litigavano parecchio, e lui registrava, con la scusa “raccolgo materiale per il mio romanzo”. Se la Francia lo scegliesse come suo candidato all’Oscar, sarebbe in linea con le nuove regole che dal 2024 affliggeranno la gara? Regole per l’inclusione, manco a dirlo. Diligentemente congegnate per riparare alla vergogna dell’hashtag #oscarsowhite, e altri che sono nati in scia. Complicate e minuziose (il burocratese esiste anche negli Usa). Alcune addirittura in palese violazione della privacy: le nomination dovranno tenere conto di una ramificata “affirmative action”. Rubiamo le parole che indicavano le quote riservate alle minoranze, nelle università o negli impieghi pubblici d’America – fatta salva la non trascurabile differenza che il cinema non è un ascensore sociale. E’ un grandioso intreccio – tra attrazione da luna park e industria – che ci ha resi felici per tanto tempo. Splendidamente rievocato nel film “Babylon” di Damien Chazelle (per questo è stato condannato all’oblio: “Ma come, noi stiamo cercando di fare ordine e pulizia, e tu giovanotto riproponi le orge e le nefandezze di Fatty Arbuckle?”). (Mancuso segue nell’inserto XIII)
Oppure nel libro di David Thomson “La formula perfetta”, che a partire da “Chinatown” di Roman Polanski (anno 1974) cerca di districare le componenti del successo – nel caso preciso, un finale tragico scelto dal regista. Lo sceneggiatore Robert Towne aveva perso i diritti sulla sceneggiatura: bel contrappasso per i molti copioni altrui che aveva sistemato e rimaneggiato.
Un pensiero di solidarietà va agli sceneggiatori in sciopero, che come i produttori dovranno stare alle nuove regole: sullo schermo, dietro lo schermo, nelle meno note retrovie della produzione e della distribuzione. Ultima voce: “audience development”: i criteri di inclusione valgono anche per chi si occupa del marketing, o delle pubbliche relazioni. Insomma: potreste inciampare sull’ultimo gradino, affidando il vostro film “perfettamente inclusivo” a un’agenzia senza impiegati a libro paga – non semplici stagisti, sarebbe troppo facile – appartenenti agli “underrepresented racial or ethnic group”.
Loro non hanno paura delle parole. Noi le abbiamo copiate da un articolo di The Hollywood Reporter. Per i dettagli dei sotto-rappresentati serve il sito ufficiale degli Oscar: asiatici, latini, afroamericani, nativi americani o dell’Alaska, delle Hawaii o delle isole del Pacifico, o in vari e eventuali altri luoghi sfuggiti al legislatore. Fin qui la geografia. Poi arrivano le categorie delicate: le donne (non è chiaro se in base all’anagrafe, oppure al “sentirsi tali, con intima convinzione”); chi si riconosce nella sigla lgbtq+; le persone con disabilità fisiche o cognitive, sorde o “hard of hearing” – potremmo tradurre “dure d’orecchio”, certi di dispiacere a qualcuno. Non sarà l’unica occasione, in questa pagina.
Torniamo al nostro film vincitore di Palma d’oro. “Anatomia di una caduta” di Justine Triet. Ha una donna protagonista, bianca e tedesca, e dunque il film risulta candidabile all’Oscar per quanto riguarda il punto A – tranquilli, bisogna arrivare al punto D. Sospiro di sollievo, notiamo en passant che il figlio della coppia litigiosa non ci vede tanto bene dopo un incidente. Crudele da dire, ma anche questo fa punteggio.
Passiamo al punto B: le persone che stanno dietro lo schermo. Qui abbiamo due criteri, basta soddisfarne uno per passare dalla parte dei buoni. Avanza intanto la privata convinzione che Wittgenstein, con la numerazione del suo “Tractatus”, fosse un dilettante: voleva mettere ordine nel mondo, non nelle casistiche del wokismo contemporaneo.
Possiamo solo sperare in una “curva del dormiglione”, che funzioni all’incontrario. “Tutto quel che fa male ti fa bene”, teorizzava nel suo saggio Steven Johnson partendo da una battuta del film di Woody Allen, quando (dopo anni di ibernazione) si sveglia nel futuro: “Possibile che fosse sfuggito il valore nutritivo delle merendine, mangiavano insalata e frittate di solo bianco d’uovo?”
Tutte queste cose buone e giuste non faranno malissimo al cinema? Diventerà più brutto, noioso e meccanico, da corredare con campagne pubblicitarie come l’ultima “Sirenetta” nera, l’attrice è Halle Bailey. Vediamo bambine afroamericane con le lacrime agli occhi, felici perché la loro eroina ha la pelle scura sopra la coda di pesce.
Il criterio B1 impone che nei ruoli chiave – regia, casting, direzione della fotografia, sceneggiatura, costumi, trucco e parrucco, produzione, scenografia, ripresa del suono, supervisione effetti speciali – almeno due persone appartengano ai gruppi svantaggiati, una delle quali deve appartenere a una minoranza etnica. Molte di queste professioni sono svolte perlopiù da donne, basta un po’ di carnagione ambrata, ed è fatta.
Proseguiamo su The Hollywood Reporter – il sito degli Oscar a questo punto diventa pressoché indecifrabile: se manca l’inclusività nelle posizioni creative, almeno sei membri della troupe tecnica devono appartenere al gruppone che sapete. Se neppure questa condizione è soddisfatta, bisogna che il 30 per cento delle persone che lavorano sul set appartengano a gruppi sotto-rappresentati. E qui tragicamente – intendete l’avverbio alla Fantozzi – abbiamo avuto l’immagine di un set somigliante al bar di Guerre Stellari. Per questo saremo fucilati da qualche minoranza furiosa.
I punti C e D sono relativamente semplici – o forse siamo noi che cominciamo a farci l’abitudine. I “sotto-rappresentati” devono avere posti di lavoro, da apprendista o stagista, presso chi produce e finanzia il film. Niente apprendisti, bensì personale già formato – sempre appartenente alle categorie “protette” – per quanto riguarda l’agenzia che cura la comunicazione. Tutto entrerà in vigore nel 2024, ed è facile prevedere che i sotto-rappresentati diventeranno facilmente sovra-rappresentati, basta l’esempio delle persone transgender che sono pochine ma molto si fanno sentire. Da qui la battuta di Dave Chappelle: “I neri non avrebbero dovuto fare le marce per la pace, ma prendere esempio dai gay: tute, lustrini, mossette, e in pochi anni hanno ottenuto più rispetto e considerazione di noi”.
Siamo già stati fucilati un paragrafo fa, ricordate? Calmate la furia e l’ironia, cominciando piuttosto a capire se il vostro film riuscirà a candidarsi all’Oscar 2024, manca meno di un anno. Dovrà soddisfare almeno due punti su quattro. E il più facile naturalmente è – visto che i mestieri non si possono improvvisare e l’Italia del cinema multietnica non è – puntare sulle storie. Ne verranno fuori altrettanti “Princess”, il film di Roberto De Paolis – regista appartenente alla categoria sotto-rappresentata dei figli d’arte: una giovane prostituta nigeriana che lavora in una pineta appena fuori Roma. Basta per soddisfare il punto A e il punto B, prego si accomodi agli Oscar.
I film italiani visti quest’anno a Cannes hanno un solido muro che li separa dagli Oscar. “Rapito” di Marco Bellocchio è un film tutto di maschi, dal rapitino Edgardo Mortara a Papa Pio IX che lo strappa alla famiglia e alla comunità ebraica, per portarselo a Roma e tenerlo sulle ginocchia. “Il sol dell’avvenire” è un film di Nanni Moretti: i patemi di un maschio occidentale bianco che farà 70 anni il prossimo agosto (chi l’avrebbe mai detto, sembra ieri quando pudicamente copriva le ginocchia di Laura Morante in “Bianca” – resta il fastidio per le scarpe che coprono le dita e lasciano il calcagno all’aria). Perfino Alba Rohrwacher non supera la prova, con i suoi tombaroli: in “La Chimera”, che un critico di buona volontà ha definito “pasoliniano”, qualche femmina in scena compare – ma i nativi della Tuscia non godono ancora del rispetto dovuto ai nativi dell’Alaska o delle Hawaii.
Le nuove regole erano state fissate nel 2020, quando il 2024 pareva lontanissimo. Contestarle è il tipo di battaglia che nessuno si vuole intestare, è un attimo farsi cacciare dal salotto buono e giusto. Ogni tanto però qualcuno sbotta. Richard Dreyfuss, per esempio, l’attore di “American Graffiti” (diretto da George Lucas), dello “Squalo” e degli “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg: ammucchiava robaccia in giardino perché i marziani si sentissero a casa.
Nel programma tv “Firing Line” (PBS) ha detto che le nuove regole “lo fanno vomitare”. La conduttrice ha chiesto il perché, ecco la risposta: “E’ un’industria che serve a fare soldi, ed è arte: non voglio che nessuno, maggioranza o minoranza, mi imponga la sua idea di moralità”. Ha aggiunto qualche spunto dalla storia del cinema. “Non avremo più un ‘Otello’ con un attore brillante come Laurence Olivier” – l’attore recitava con la ormai neanche nominabile “black face”, la faccia dipinta di nero.
“Vuol dire che da oggi mi proibiranno di fare ‘Otello’? e il ‘Mercante di Venezia’ è consentito solo agli attori ebrei?” continua Dreyfuss. Va detto che il cinema, da questo punto di vista, ha colpe gravi da cui mai riuscirà a purificarsi. Nel “Cantante di jazz”, primo film sonoro uscito nel 1927, il figlio di un cantore di sinagoga non vuole seguire le orme del padre. Si pittura la faccia di nero, e canta nei locali jazz di New York.
Oggi succede che i trucchi prostetici trasformano chiunque in chiunque altro – Pierfrancesco Favino in Bettino Craxi, per fare l’esempio più clamoroso del cinema italiano. Ma nello stesso tempo si pretende che solo gli attori gay possano recitare ruoli gay – privandoci per esempio di Michael Douglas che in “Behind the Candelabra” si infiocchetta come il pianista Liberace (il riferimento è ai due candelabri con frange sistemati sul pianoforte). Solo i grassi possono fare i grassi, solo i magri possono fare i magri, solo i trans possono fare i trans. Siccome “recitare” vuol dire “far finta di essere qualcun altro”, forse tra un po’ metteranno la pratica fuorilegge.
Man mano che la scadenza si avvicina, sparisce l’ottimismo alla Peter Bradshaw che nel 2020 sul Guardian sentenziava “non cambierà nulla”, e The Hollywood Reporter comincia a porre questioni concrete. Per sottoporre un film ai signori degli Oscar, ora bisogna riempire un questionario che pretende di sapere, per il cast e per i membri della troupe, “race, gender and sexual orientation”, più qualche altro interrogativo contrario a ogni privacy. La salute, per esempio: dolore cronico o depressione sono più privati se lavori nel cinema.
Un regista indipendente che ha preso visione del questionario sbotta: “E io cosa ne so? Non è illegale chiedere a qualcuno se è gay?”. Vale anche per i produttori, che adesso dovranno informarsi – in nome dell’inclusività – sulle preferenze in materia di sesso, o sulle disabilità. i dirigenti dall’Oscar mandano avanti i loro esempi positivi, veri o presunti: il questionario RAISE (la sigla che sta per Representation And Inclusion Standards Eligibility, alziamo la consapevolezza) è stato già compilato da molti registi, per conto di attori, troupe, produttori. Quanto ai furbetti dell’inclusione – sono previsti anche loro – L’Academy dice che controllerà i dati ricevuti, non è chiaro come: rifarà daccapo tutte le domande proibite o indiscrete?
Altre regole nuove riguardano i social, per evitare che si ripeta il caso Andrea Riseborough, attrice britannica che in “To Leslie” di Michael Morris (piccolo film indipendente, non è grave se non l’avete mai sentito) ha la parte di un’ex alcolizzata che cerca di risollevarsi. Ruolo da Oscar se mai ce n’è uno, di meglio ci sono soltanto i film sull’Olocausto. o meglio, “c’erano”: dopo la vittoria di “Parasite” e di “Everything Everywhere All at Once” anche le battute vanno rinnovate.
Il film non l’aveva visto nessuno. Ma improvvisamente una serie di star – Jennifer Aniston, Gwyneth Paltrow, Charlize Theron, Kate Winslet, Edward Norton – hanno cominciato a caldeggiare sui social la candidatura di Mrs Riseborough. Entrata in cinquina, sostengono i bene informati, rubando il posto all’attrice afroamericana Viola Davis, per il film “The Woman King”.
Il prossimo passo sarà distinguere tra campagne per gli Oscar legittime – proiezioni per i giurati, pagine comprate su Variety e altre riviste specializzate con la scritta: “For Your Consideration” – e campagne che invece legittime non sono? Auguri ai controllori, ormai si accettano scommesse su quanto caleranno gli ascolti della serata. Non c’è neppure la speranza che l’inclusione faccia la fine del codice Hays di condotta morale: niente letti matrimoniali, per esempio; e neanche sciacquoni (ma Hitchcock fece finta di nulla, in “Psycho”). I registi bravi aggirarono le regole con ingegno e fantasia. Ora sembra che i ribelli non li fabbricchino più.
Politicamente corretto e panettone