Il ricordo
Quella di Alan Arkin era una comicità di classe ma contagiosa
Delirio di risate per “Little Miss Sunshine”, oggi sembra incredibile che il film circolasse senza scandalo, per audacia e varie scorrettezze
Ricordate “Little Miss Sunshine”? È passato tanto tempo dal 2006, film così divertenti se ne vedono di rado. Era al Festival di Locarno, quando ancora sceglievano i titoli tenendo d’occhio il pubblico: migliaia di persone in piazza, fu un delirio di risate. Possiamo vedere tanti film in un cinema con cinque spettatori, o nessuno oltre a noi. Ma la comicità ha bisogno del contagio, di spettatori che ridono: e che siano tanti, sennò l’effetto è patetico. Meglio non sperimentarlo mai, tanto lavoro sprecato.
Billy Wilder in “A qualcuno piace caldo” volle Jack Lemmon vestito da donna con le nacchere, e distanziava le battute per dare tempo agli spettatori di ridere. Si era appena fidanzato con Osgood il miliardario, che non sospetta niente e quando scopre la verità – “Sono un uomo!” – commenta senza scomporsi: “Nessuno è perfetto” (servisse una traccia per la maturità dell’anno prossimo, si potrebbe far commentare questo esempio di geniale comicità).
Per “Little Miss Sunshine” (di Jonathan Dayton e Valerie Faris), Alan Arkin vinse l’unico Oscar della sua carriera. Per gli standard hollywoodiani, troppa grazia. Gran parte del film la trascorre cadavere, sotto un lenzuolo, a bordo del pullmino Volkswagen bianco e giallo che porta la famiglia dal New Mexico in California (al concorso di bellezza della figlia Olivia, sette anni). Lo hanno portato via dall’ospedale di nascosto, a sbrigare le pratiche funerarie non fanno in tempo. E il nonno vorrebbe così: sotto la sua guida, Olivia ha provato e riprovato il numero. Che noi non vediamo fino al momento dell’esibizione. Il nonno coltivava i suoi vizietti, sniffando eroina (per questo, e le riviste porno, era stato cacciato dalla casa di riposo). Altre bizzarrie in famiglia: zio Frank sa tutto di Proust, peccato che un collega (nonché ex amante) gli abbia sottratto, e pubblicato a proprio nome, il risultato di annose ricerche. Arrivano in California, e la altre concorrenti sono piccole Barbie, con i capelli biondi cotonati, i tacchi e i vestiti con i volant. Olivia ha un costumino da ginnastica, e pure un accenno di pancetta. Cominciamo a ridere quando vediamo che ha in mano un cappello a cilindro, e un bastone da majorette: il nonno coreografo gli ha insegnato uno spogliarello con mosse da pantera.
Lo raccontiamo, e oggi sembra incredibile che il film circolasse senza scandalo, per audacia e varie scorrettezze. Era in concorso al Sundance, poi comprato da una divisione della Fox (un gran bell’affare per tutti, era costato otto milioni e ne ha incassati nel mondo un centinaio). In anni più recenti, Alan Arkin (morto venerdì scorso a 89 anni, era nato a Brooklyn da una famiglia ebraica, come molti comici della sua generazione) ci ha ricordato cosa è la classe. Sempre in materia di comicità, si intende, non erano attori che coltivavano la sguaiataggine. Nella serie “Il metodo Kominsky” fa coppia con Michael Douglas, insegnante di recitazione per mancanza di scritture (gli preferiscono attori più giovani). Alan Arkin era il suo agente, quando le cose andavano bene. Ora è il suo miglior amico, anche se quasi mai si trovano d’accordo. Insieme vanno ai funerali, che dopo una certa età sono le uniche occasioni mondane, soprattutto se rimani vedovo. Fa il paio con la battuta di George Burns, ancora più maturo: “Se non fosse per qualche borseggiatore la mia vita sessuale sarebbe zero”. Restano ragazzi irresistibili come Mel Brooks (guarda caso: nato Kaminsky). Di anni ne ha 97 e qualche mese fa, in un documentario sui grandi vecchi di Hollywood, ha ricordato la regola: “Se non vedi il tuo nome nei necrologi, vai a far colazione”.
Effetto nostalgia