Vedo rosa
Il film sulla Barbie sarà una delusione perché ci rifilerà almeno sette morali
Quel che abbiamo imparato dalla Barbie non c’entra nulla con la vita stretta, ma con la lotta di classe
Tutti aspettano Barbie e la delusione ci sarà per forza. Come si dice, l’hype è troppo alto. Talmente alto che circolano leggende pure sull’esaurimento delle scorte di vernice rosa nel mondo perché allestire il set l’avrebbe drenata tutta. Il film – si capisce benissimo dal trailer – sarà purtroppo del modello arcinoto: grande metafora narrata per ischerzo. Preso un pretesto carino, o cute, il regista predicherà un poco sottotraccia, sperando che non si veda. Ehi guardate come sono stata brava a fare questo giocattolino rosa, leggero come uno spumantino. E ora vi ci spiego i grandi temi e il declino della civiltà con la storia della bambola di plastica! Sono o non sono originalissima?
Il trailer ha già sbottonato la trama: si capisce che Barbie-Margot Robbie campa nel suo mondo fesso (Instagram, ça va sans dire), dove i piedi sono fatti ad arco per adattarsi ai tacchi, un ordine estetico gommoso ed elementare governa le cose, i maschi hanno lo sguardo da bue e sono perfino più inutili di Ken, c’è il divieto di profondità e pensiero. A Barbie succede qualcosa, come il tornado di Dorothy Gale, le dicono che è difettosa e quindi dovrà recarsi nel mondo reale (offline). Seguono varie peripezie in cerca della felicità. Una specie di Mago di Oz al contrario. Il problema di questa storiella è la lezione che già si intravede dietro. Greta Gerwig farà la morale, me lo sento. Prendo i tarocchi e provo a indovinare. Ecco quello che ci aspetta al cinema, con ragionevole sicurezza.
Metafora della vacuità dei tempi (e uno). Metafora dell’assuefazione alla vacuità dei tempi (e due), metafora della spinta narcisistica che ha prosciugato pure gli istinti sessuali delle caverne (e tre), metafora della bionda che poi si scopre tanto scema non è (e quattro), metafora di un mondo ideale dove il maschio è maggiordomo, subalterno, obbediente caprone (e cinque), metafora della spedizione di Barbie dal mondo online al mondo offline, fatto di capelli castani stopposi come i nostri e birkenstock (e sei), metafora dell’umanità rimbecillita che andrebbe salvata prima di perdersi del tutto (e sette). Doveva succedere: Gerwig è pronta per il grande salto. Da brillante promessa a solita stronza. E’ inevitabile.
Ha animato l’inanimabile. Barbie ce la ricordiamo, era ferma, immobile, a stento si piegavano le ginocchia. Non c’era trama, nella vita di Barbie. Era senza segreti. Non era Barbie in sé, a preoccupare i genitori, era Barbie nel negozio. Il desiderabile non finiva mai, mai, mai. Prima cosa, Barbie alimentava il sano circoletto dell’invidia tra amiche: se per il compleanno avevo in regalo Barbie Fiori di Pesco (abito rosa, vaporoso, modello Rossella O’Hara alla villa di Tara prima della guerra), Nicoletta aveva sempre Barbie Luce di Stelle, con un vestito a pallini fosforescenti, di notte il tulle brillava. Era più bella la sua? Non c’era tregua in quelle scuole elementari. Barbie era anche resistente al gioco. Si opponeva, era rigida. Non aveva gusto nessuna pantomima, non ti sfiziavi con quella bambola. L’unica cosa che interessava a tutte era tagliarle i capelli. Vietatissimo. Chi non ha mai tagliato i capelli alla Barbie. Capelli di petrolio. Volevi un caschetto con frangia e te la ritrovavi ridotta a uno scopino elettrico. L’avevi rovinata, te ne serviva un’altra.
Per questo viene da ridere, davanti agli studi che dimostrano come la Barbie abbia fatto più danni delle principesse Disney. Del corpo imposto a noi bambine manco ci accorgemmo. Microvitino, tette impossibili e fianchi pieni. Da qui la decisione di Mattel, produttore della nostra beniamina dal 1959, di inaugurare una linea di Barbie più normali e diversificate per razze. Barbie deve somigliare alla vita. Quanto erano fuori strada. Barbie ci insegnò tutto, ma non del corpo, chi se ne fregava del corpo. Ci iniziò all’invidia (“io a Natale ho avuto la casa di campagna, il camper e lo studio acconciature e trucco. Tu?”), alla resistenza, alla forza dei confronti, alla lotta di classe fatta in modo intelligente (“io ho avuto solo il bagno, ma è bello, coi cigni, vengo da te domani e mettiamo tutto insieme!”). Lo studio aveva concluso che giocare con Barbie incoraggiasse le ragazzine a desiderare quel fisico. Non avevano capito che l’unica a cui speravamo di somigliare era l’amica a cui compravano l’impossibile. Barbie era un gioco strano, funzionava per accumulo. La bambola in sé c’entrava poco. Al gioco di Barbie vinceva chi aveva più pezzi di quel mondo, Barbie era questione di volere tutto. Si chiamava capitalismo, avremmo scoperto in seguito.
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