Io sono tuo padre

Mariarosa Mancuso

La recensione dl film di Mathieu Vadepied, con Omar Sy, Alassane Diong, Jonas Bloquet, Bamar Kane

Senegal, 1917. L’esercito francese va di villaggio in villaggio per arruolare giovani combattenti. Li rapisce, per la verità, accerchiando le casupole e inseguendo i fuggitivi che non vogliono entrare nell’esercito dei colonizzatori. Il giovane Thierno viene catturato, il padre Bakary – Omar Sy – chiede di arruolarsi nello stesso plotone africano. Uomini di regioni diverse: oltre al Senegal, il Niger, il Sudan e la Guinea, neanche si capiscono tra loro (erano 200 mila). Thierno parla un po’ di francese e viene promosso caporale, agli ordini del comandante bianco che i neri li schiera in prima linea. Il padre cerca di proteggere il figlio, ma si rivelerà un peso, prodigo di saggezza africana: dignità, rispetto, amore, famiglia e antenati. Licenza poetica: sembra che in Africa nessuna tribù abbia mai attaccato la tribù vicina, e la guerra l’abbiano inventata gli europei. Omar Sy – universalmente conosciuto per “Quasi amici”, il badante che porta a spasso il miliardario paraplegico  in Maserati, e ai poliziotti racconta un sacco di bugie (oltre 400 milioni di dollari incassati nel mondo) – ritrova nel ruolo di Bakary la lingua delle sue origini. Colonna sonora di Alexandre Desplat, sempre piuttosto invasiva. Per i combattenti che restano vivi c’è la promessa della cittadinanza francese, una volta vinta la guerra. Thierno deve scegliere tra la capanna del genitore, o l’emancipazione (e la modernità) attraverso il comando.

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