mostra del cinema di venezia
Il film di Garrone è da far vedere a scuola, ma al cinema è un'altra storia
“Io capitano” e “Green Border” di Agnieszka Holland portano alla Mostra del Cinema di Venezia le storie dei migranti che arrivano attraverso la rotta balcanica e quella mediterranea. E poi c'è l'onnipresente metaverso
Ieri la rotta balcanica che passa per la Polonia, in “Green Border” di Agnieszka Holland. Oggi la rotta mediterranea, con partenza dal Senegal, nel film “Io capitano” di Matteo Garrone. “Dagli Appennini alle Ande” era un racconto in “Cuore” di Edmondo De Amicis, anno 1886, quando erano gli italiani a partire per terre assai lontane. Poco amata dai governi del suo paese, la regista nata nel 1948 a Varsavia ha diretto episodi di “The Wire” e “House of Cards”. Per “Green Border”, un bosco tra Bielorussia e Polonia che da meta di gite è diventato un luogo di dolore, ha scelto il bianco e nero. Matteo Garrone inquadra un Senegal sgargiante di colori sotto il sole accecante. Fa eccezione qualche sequenza notturna, e il passaggio nelle camere di tortura libiche. Ennesima prova da superare per Seydou e Moussa – gli attori si chiamano Seydou Sarr e Moustapha Fall, di Dakar; ora ospitati a Fregene dalla madre del regista – che amano il rap e vogliono “farsi firmare autografi dai bianchi”. Partono speranzosi, i soldi racimolati con mille lavoretti – non basteranno, ogni tappa richiede cospicue mazzette extra. Di nascosto dalle mamme, che li hanno messi in guardia, troppi pericoli. Ma chi ascolta i consigli della mamma a 17 anni? Hanno vissuto sempre al villaggio, qualche ballo come unico svago, neanche loro immaginano quanto sia lunga la traversata del deserto. Non sprovvista di allucinazioni. Matteo Garrone ha rischiato, ha studiato, ha girato un film che andrebbe mostrato in tutte le scuole di ogni ordine e grado, oltre che ai politici e a chi sostiene che i poveretti sui barconi non arrivino qui perché hanno fame, ma per rubare il lavoro (malissimo pagato, peraltro) e le donne agli “italiani veri”. Nelle scuole, e anche in tutti i bar sport. “Io capitano” illustra quel che non vediamo quando l’ennesimo barcone arriva in vista delle nostre coste, ricostruendo – da storie vere – il lungo e periglioso tragitto dei disperati.
Al cinema – uscirà proprio oggi – è un’altra faccenda. Dura due ore, Seydou e Moussa parlano in wolof, sottotitolati; ogni tanto si sente un po’ di francese. Il doppiaggio rovinerebbe il film, ma non tutti gli spettatori italiani sono a loro agio con i sottotitoli. Lo sono i giovani, ma difficilmente pagheranno il biglietto per “Io capitano”, se non comandati (e bisognerebbe provvedere agli oltre ottocentomila lettori del generale Vannacci: non è che gli italiani non leggono; leggono libri che li fanno sentire meno soli, come al bar o sui social).
Poteva mancare il metaverso, in una Mostra che compie 80 anni ma non li vuole dimostrare, non molestata finora dal nuovo governo? Due film sono fatti apposta per confonderci le idee – purtroppo non divertenti e giocosi come “Everything Everywhere All at Once” che ha vinto quest’anno l’Oscar (c’è confusione anche tra i registi, sono due e si fanno chiamare Daniels).
Bertrand Bonello in “The Beast” adatta senza rispetto il racconto di Henry James “La bestia nella giungla”. Siamo nel futuro, l’intelligenza artificiale consente di cancellare i ricordi, immersi in una vasca di liquido nero che pare catrame. Lo fa Léa Seydoux, solo per ritrovarsi sempre con lo stesso corteggiatore. Nel 1910, nel 2014, nel 2044: “Lei mi ricorda qualcuno”. Non concludono mai.
“La teoria del tutto” è presentato dal regista Timm Kroeger come un “thriller metafisico” nelle Alpi svizzere. Mette voglia di fuggire, ed è l’unica reazione sensata al convegno di scienziati, negli anni Sessanta, e al giovane fisico che dovrebbe presentare la sua tesi ma pare un po’ matto, tra gente che sparisce e altra gente che viene assassinata. In bianco e nero, la moda di quest’anno.
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