Il caso
Su Gaza, Hollywood scopre di avere di un problemino con l'antisemitismo
Gli sceneggiatori della Writers Guild of America non si sono uniti ai registi e agli attori per condannare Hamas. Nessun silenzio e nessuna pausa di riflessione invece quando si è trattato di offrire solidarietà a Black Lives Matters e al #MeToo
Il primo è stato Quentin Tarantino, fotografato con i soldati in una base militare nel sud di Israele – lui a volto scoperto, i soldati delle Israel Defence Forces con le facce pixelate (è guerra, non una parata militare). Da un paio d’anni, il regista vive a Tel Aviv con la moglie israeliana Daniella Pick e i loro due figli: “Mi piace il posto, mi piacciono le persone, somiglia a una piccola Los Angeles”. Madonna ha definito “devastanti” le foto che mostrano le vittime dell’attacco, ancora ammassate prima dei riconoscimenti, schierandosi contro Hamas.
Intanto a Hollywood si discute di antisemitismo. Ma come, non sono tutti ebrei? – così sostiene la propaganda che vuole la gente del cinema pronta a corrompere la sana gioventù americana. Certo che no. Tant’è che la Writers Guild of America (Wga) – l’associazione degli sceneggiatori che ha appena trovato un accordo dopo 150 giorni di sciopero – non si è unita all’associazione dei registi e a quella degli attori per condannare Hamas e l’attacco del 7 ottobre. Lo scorso venerdì, 75 soci sceneggiatori si sono riuniti per mettere giù una bozza che esprimesse il loro disappunto. Marc Guggenheim, showrummer di “Legends of Tomorrow” (c’era anche Howard Gordon di “Homeland”, format Made in Israel), non nasconde la delusione: “Abbiamo marciato solidali con i colleghi della Wga, e ora loro non sono con noi”. Silenzio. Neanche motivato. Scrive l’Hollywood Reporter che molti soci non hanno voluto rispondere ai giornalisti, come se il massacro richiedesse una più accurata riflessione.
Nessuna riflessione invece quando si è trattato di offrire solidarietà a Black Lives Matters e al #MeToo. Allora gli 11.500 membri erano compattamente schierati a fianco del Bene. Oggi il Simon Wiesenthal Center ha ringraziato i 200 – tra cui Sacha Baron Cohen, Jerry Seinfeld, Matt Weiner – che hanno condannato il silenzio sugli ebrei uccisi e rapiti dai kibbutz. L’indignazione era tutta già spesa per i neri uccisi dalla polizia e le donne molestate. I contrari ora contrattaccano denunciando “il genocidio nella striscia di Gaza”. E chiamano a raccolta, con le sole iniziali per paura di rappresaglie: “Chi sta dalla nostra parte e sa di non poter parlare liberamente”. Nel suo ultimo film “The Fabelmans”, Steven Spielberg racconta che da piccolo era abituato alla sua casa senza luci e renne per Natale. Sperimenta l’antisemitismo quando va a Los Angeles per studiare cinema, ragazzo prodigio che con il Super8 aveva già fatto un bell’apprendistato. Variety ha da pochi giorni online una sezione intitolata “Antisemitism & Hollywood”, aperta con parole della rabbina Sarah Hronsky – è pur sempre California.
Attori, comici, studiosi (nel 2022, le aggressioni contro gli ebrei negli Stati Uniti sono cresciute del 36 per cento rispetto all’anno prima, e il 20 per cento degli americani coltiva sei o più pregiudizi contro gli ebrei), esponenti della Shoah Foundation, creatori di videogiochi educativi – così non vedremo più Anna Frank con la kefiah, come è successo a Torino in una manifestazione pro Palestina – raccontano le loro esperienze. Mayim Bialik racconta il suo naso, al centro di uno sketch del “Saturday Night Live”, e poi discute il naso finto di Bradley Cooper per impersonare Leonard Bernstein (gli sta benissimo, e ora leviamo tutte le protesi, anche a Pierfrancesco Favino/Craxi). Hollywood l’hanno inventata Schmuel Gelbfisz; Lazar Meir; Hirsz Mojżesz Wonsal. Tirava una brutta aria per gli ebrei fuggiti dall’Europa, e i nomi sono diventati Samuel Goldwyn. Louis B. Mayer. Harry Warner. Dopo l’attacco a Israele, “a small chirp of indignation” da parte della gente del cinema è un’indegnità.