l'intervista
Anatomia di una caduta, ovvero il declino di una storia d'amore. Parla la regista Justine Triet
Intervista alla vincitrice della Palma d’Oro a Cannes con il suo thriller processuale, un film che analizza senza censure le dinamiche più oscure della relazione di una coppia
La regista Justine Triet, con i suoi film (La Bataille de Solférino, Victoria, e prima ancora diversi documentari), ha sempre detto o manifestato quello che voleva. Davanti a un pubblico mondiale, all’ultimo Festival del Cinema di Cannes, con in mano la Palma d’Oro appena vinta con Anatomia di una Caduta (Anatomie d'une chute) – film campione d’incassi in Francia e appena uscito anche in Italia per Teodora Film – disse senza alcun timore che “il governo francese sta distruggendo l’eccezione culturale", dichiarandosi favorevole alle proteste contro la riforma delle pensioni e attaccando duramente il governo guidato da Élisabeth Borne. Sarà un caso, ma sono stati in molti a pensare che la sua non candidatura ai prossimi Oscar come Miglior Film Straniero per la Francia (al suo posto hanno preferito puntare su La Passion de Dodin Bouffant di Trần Anh Hùng), sia dovuta proprio a quelle parole. "Ognuno si assume le proprie responsabilità di quello che fa e che dice – spiega al Foglio – in questo momento mi sto godendo tutto il bello che quella vittoria mi ha regalato e mi sta continuando a regalare. Negli ultimi mesi sono diventata una nomade, perché non dormo più a casa mia e sono sempre in giro per il mondo per promuoverlo. Vincere la Palma d’Oro è stata una cosa magnifica che probabilmente non mi capiterà più nella vita, quindi sto cercando di viverlo appieno. Il film adesso non è più solo un oggetto elitario, non mi appartiene più, è del pubblico che lo ama ed è questa per me la cosa più bella, il resto sono sono dettagli". Siamo alla 18esima Festa del Cinema di Roma dove la regista francese è venuta a presentare proprio quel suo strepitoso thriller processuale, un film imperdibile che analizza senza censure le dinamiche più oscure della relazione di una coppia.
Il cadavere di un uomo (Samuel Maleski) viene ritrovato nella neve davanti allo chalet sulle Alpi francesi in cui viveva con la moglie e il figlio ipovedente. Si è suicidato o è stato ucciso? I sospetti ricadono sulla moglie Sandra - Sandra Hüller, a dir poco perfetta in questo ruolo, protagonista anche di Zone of Interest di Jonathan Glazer - ma a finire al centro del processo è proprio la coppia, con i suoi rapporti burrascosi e la sua divisione non convenzionale dei ruoli, e soprattutto lo stile di vita di quella donna. "Volevo raccontare la caduta del rapporto di un uomo e di una donna che stanno insieme ed è così che la discesa fisica ed emotiva di un corpo diventa il declino della storia d’amore tra i due protagonisti", ci spiega la regista, terza donna al mondo a vincere la Palma d’Oro dopo Jane Campion e Julia Ducurnau. "Hanno un figlio (Milo Machado Graner, ndr) che ha modo di scoprire la natura vera di quella relazione proprio durante il processo in cui ad essere esaminati sono tutti loro e ogni aspetto del loro passato. Il processo prosegue e il ragazzo, che aveva fino a quel momento una completa fiducia nella madre, comincia ad avere qualche dubbio e questo segnerà una svolta cruciale nella sua vita".
L’attenzione della regista, che ha scritto il film col compagno Arthur Harari, è tutta rivolta a quella donna, una scrittrice di successo "che non fa nulla per risultare simpatica", precisa lei. Sandra, ve ne renderete conto sin da subito, è una stronza nel significato più vero di quel termine, ma non vuol dire che non provi emozioni, che non soffra, che non odi, che non ami. Nella scena iniziale, dopo che la telecamera si è soffermata sulle foto della famigliola in apparenza perfetta e felice sul frigorifero e non solo, la vediamo accogliere una giornalista arrivata per intervistarla, iniziando così con lei un gioco di seduzione. Nel frattempo il marito, dalla stanza più alta della casa, alza la musica a tutto volume come fosse una protesta per il suo atteggiamento, per il suo non essere famoso come lei, per non gradire quelle che poi diventeranno le sue scappatelle extra coniugali e molto altro ancora. Sandra non è una vittima ideale né nei confronti del pubblico, né dei giudici che dovranno poi decidere sulla sua colpevolezza o sulla sua innocenza. Viene considerata una manipolatrice, diventa la sospettata numero uno dell’omicidio e le viene contestata persino la sua ambizione, "quando invece se l’avesse avuta il maschio, sarebbe stata apprezzata", aggiunge Triet, attiva nel collettivo 50/50 che si batte per la parità di genere nel cinema. La sua ricerca di libertà e quella sua forte volontà creano uno squilibrio in quella relazione e l’intero film è un invito a mettere in discussione le nostre nozioni preconcette di democrazia in un rapporto di coppia e come questa possa essere danneggiata da impulsi di sopraffazione e rivalità. Le sue parole, quelle degli avvocati, del giudice, del bambino, dell’assistente sociale, dei giornalisti fuori dal tribunale come delle persone comuni si susseguono e si accavallano, fino a confondersi in una Grenoble che fa da sfondo, ma non si vede mai. Anche la verità, che c’è, non si vede, ma poco importa, perché ciò che colpisce e importa in questo film sono i segreti e le bugie nascoste o manifeste che aggiungono ancora più mistero alla vicenda in cui vittime e carnefici si confondono a loro volta tra pensieri, azioni e altre parole in un nucleo di presunta verità.
"Le parole non arrivano mai a raccontare veramente tutto, ad essere veramente di aiuto, dice la regista. Di solito, quando arrivano sono liberatorie, ma in questo caso sono un freno tra la donna e la realtà". Abbiamo così un linguaggio processuale in cui si cerca di spiegare la vicenda che reinventa e descrive una vita e una storia e poi il linguaggio parlato a casa che è fatto più di pulsioni, perché la coppia parla una lingua che non è lingua madre per nessuno dei due. I due coniugi poi, anche nelle loro discussioni più accese e feroci, continuano a essere sempre onesti l’uno con l’altro rivelando un amore che resiste, nonostante le sfide. Il mondo di fuori sta a guardare, con altri problemi e angosce che ci riguardano tutti. "La pandemia prima, le guerre e l’emergenza climatica fanno parte del nostro orrore quotidiano – conclude Triet – ma la mia ossessione è cosa faranno i giovani di oggi, come potranno arrivare a costruirsi una vita in questo mondo in un futuro possibile, come riusciranno a entrare in questa vita. C’è uno scostamento tra una realtà virtuale che però è reale, sta lì. Questi ragazzi hanno una difficoltà a restare ancorati a un qualcosa di reale e preciso, lo vedo con i miei figli piccoli. Mi ossessiona capire come si arriverà a una convivenza e come i giovani potranno trovare un punto forte a cui attaccarsi in questo mondo dove assistiamo quotidianamente a una vera e propria mostruosità tra il reale e il virtuale. È tutta una questione di empatia, molto complessa, ma fondamentale. Riusciremo ad trovare una soluzione? Me lo auguro davvero".