Stati Uniti
La liberal Hollywood ha una lacrima per tutti tranne che per gli ebrei
L’associazione degli sceneggiatori WGA è divisa dopo il massacro del 7 ottobre. Dopo i rapidissimi slogan pro Black Lives Matter e #MeToo, nemmeno una parola di condanna contro le atrocità perpetrate da Hamas
Un’avvisaglia c’era stata alla fine del 2021, quando fu inaugurato il l’Academy Museum of Motion Pictures. Il museo losangelino disegnato da Renzo Piano per celebrare il cinema – una gigantesca cupola che respinge con sdegno ogni riferimento a “Star Wars” – risultò sprovvisto di una sezione, o almeno di una sala, dedicata ai fondatori ebrei: Warner, Zukor, Goldwwyn, Mayer. Eppure il sedicente “inclusivo e diversificato” sguardo alla storia dell’arte cinematografica si vantava di aver lasciato spazio ai neri e alle donne, forse anche agli asiatici.
Tanti buoni propositi, e una clamorosa dimenticanza. Mancavano i fondatori dell’industria cinematografica, riuniti sulla West coast perché negli altri mestieri gli ebrei non erano ben visti. Un rapido cambio di cognome, la luce del deserto adatta alle cineprese del tempo, e fu subito Hollywood. La svista – chiamiamola così – fu segnalata tra gli altri da Haim Saban che aveva donato al museo 50 milioni di dollari. Il buco fu rappezzato progettando per i fondatori qualche altro padiglione, in separata sede. La Hollywood progressista e liberale dove gli ebrei avevano trovato lavoro e successo, regalando agli americani un’arte da conquistarci il mondo, ha accusato un altro duro colpo il 7 ottobre. Quando nella WGA – l’associazione degli sceneggiatori reduce da una vittoriosa negoziazione di categoria durata 150 giorni – si è aperto uno scisma. Risultato: neanche una parola di condanna contro le atrocità perpetrate da Hamas. Temevano una rivolta interna, ed erano solo i primi della lista. Qualcuno dei grandi studi aveva adottato la politica della struzzo – non tutti per la verità: Disney, Warner e qualche grande agenzia prontamente condannò l’incursione, i rapimenti, gli omicidi. Sui social delle celebrità, rapidissime a scattare appuntandosi al petto gli slogan Black Lives Matter e #MeToo, neanche una parola contro Hamas.
Non erano argomenti di cui si discorreva, prima del 7 ottobre. E però nessuno, guardando i colleghi, pensava che non sarebbero stati capaci di “riconoscere un pogrom, avendolo sotto gli occhi”. Parola di Ari Emanuel, figlio di poveri immigrati a Chicago e potentissimo agente prima e dopo la pandemia. Nei momenti duri disse al suo socio: “Noi agenti siamo come gli scarafaggi, sopravviveremo alla guerra nucleare”. La frattura all’interno della WGA – spiegano i soci che vogliono restare anonimi perché temono rappresaglie: a questa si è ridotta la Babilonia raccontata da Damien Chazelle nel suo film – non pare sanabile. I nemici di Israele scambiano la causa palestinese come un prolungamento delle giuste cause sostenute finora, da Black Lives Matter al #MeToo: in quel caso né i singoli soci, né l’associazione in quanto tale, aveva dimenticato di appuntarsi la coccarda, la spilletta, l’ornamento dei buoni e dei giusti. Tutto finito: ora fanno circolare materiali a sostegno dei palestinesi, e accusano Israele di ogni nefandezza.
Una lettera aperta con 300 firme - da Jerry Seinfeld a Eric Roth ad Amy Sherman-Palladino di “Mrs Maisel” – già il 15 ottobre aveva interrogato la WGA sulla mancata condanna dell’attacco di Hamas. Risposta desolante: “I punti di vista sono diversi, non riusciremo a metterci d’accordo”. Intanto il gruppo dei pro palestinesi, con una petizione anonima, denunciava pressioni. Firmandosi solo con le iniziali, per timore di essere considerati antisemiti (altro che Hollywood liberal, un nido di vipere). La mancata dichiarazione della WGA a sostegno di Israele equivale per loro a una vittoria. Il nostro campione Aaron Sorkin ha mollato la sua agente, che aveva accusato gli israeliani di genocidio.