magazine
Misterioso Rol. Prediceva veramente il futuro?
Credere o non credere? Forse non è questo il problema. Il documentario di Anselma Dell’Olio
“L’incroyable Rol, qui ne sera croyable qu’après demain seulement” (Jean Cocteau)
Non fu un sacco di cose Gustavo Adolfo Rol. Soprattutto non fu quelle per cui, a centoventi anni dalla nascita e a ventinove dalla morte, di lui ancora si parla e se ne scrive entusiasmati o dubitanti. Non fu un chiaroveggente né uno spiritista, non un guaritore né un paragnosta brevettato. Un guru tantomeno. Non si attribuì poteri o facoltà speciali ma “possibilità”, solo che queste comprendevano stupefacenti manifestazioni di cui togliamo l’elenco a Remo Lugli, un inviato della Stampa che riluttante si arrese all’evidenza e fu, nel ’95, il suo primo biografo. Rol “leggeva in un libro chiuso, scriveva a distanza, provocava trasmutazioni, apporti e asporti di oggetti, materializzazioni e smaterializzazioni, prediceva il futuro, faceva e faceva fare ‘viaggi nel tempo’, diagnosticava malattie, aiutava con la sua presenza chirurghi in interventi difficili, dava forza e coraggio ai malati, fiducia ai depressi, voglia di vivere agli aspiranti suicidi”. Non è tutto: pittori del passato per suo tramite dipingevano senza che toccasse colori e pennelli, ma quando invece dipingeva lui – le rose il suo soggetto preferito – i quadri potevano mutare nel tempo e i fiori spandere profumo. Ce n’è abbastanza per esaltare i creduli e suscitare l’ira o l’ilarità degli increduli, due ferree tipologie di incurabili che pochissimi dottori riescono a sanare. Rimaniamo pertanto nel giusto mezzo. Non fu un sacco di cose Gustavo Adolfo Rol, figlio della migliore borghesia torinese, avviato dal padre banchiere alla sua stessa carriera nella Comit, cresciuto tra libri d’arte e musica classica, tra il gusto antiquariale e l’afflato filantropico che lo avrebbe inclinato per il resto della vita a un umanitarismo deamicisiano senza libro Cuore e a una fede cristiana poco bigotta e più disposta al tremendo e giocoso stile di Don Bosco, al quale assomigliò per la dimestichezza con le visioni premonitrici e il gusto per il gioco. Se il santo salesiano si produceva nella prestidigitazione per strappare i ragazzi alla strada e tenerli all’oratorio, Rol sfoggiava i suoi “esperimenti” con le carte francesi per riempire il proprio elegantissimo salotto sul Parco del Valentino e mostrare che sì, qualcosa c’è oltre la materia. C’è lo “spirito intelligente”. E c’è una legge divina meno distante delle stelle che la scienza non può (ancora) spiegare e su cui, nel dubbio, potrebbe tacere. Sospendendo, se scienza fosse saggezza, il giudizio a beneficio dei posteri.
Rol affascina sempre perché è tuttora un enigma e Enigma Rol è il titolo del docufilm di Anselma Dell’Olio presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e che andrà nelle sale il 6, 7 e 8 novembre. Non è un tentativo di sciogliere i dubbi né di parteggiare pro o contro, non l’agiografia di un personaggio tra i più dispari del Novecento italiano, ma la ricucitura di una vita attraverso episodi salienti, documenti, testimonianze dirette fissate prima che vadano disperse tutte. È l’esito di un viaggio a prove di regia ravvicinate che ha portato Anselma Dell’Olio senza soluzione di continuità da Fellini (con Fellini degli spiriti) a Zeffirelli (con Franco Zeffirelli, conformista ribelle) a Gustavo Adolfo Rol, che fu del primo e del secondo più che un amico, metronomo spirituale, la luce nella notte per orientare i passi ma pure estroso compagno di allegria. Ispirato dalla Torino di Don Bosco e devotissimo alla Vergine della Consolata, tenne lo sguardo rivolto alla Francia e all’amatissimo Napoleone dei cui cimeli fu importante collezionista, convinto di avere “veduto” la battaglia di Waterloo con lo sguardo pieno del testimone diretto e non dalla marginale prospettiva del Fabrizio del Dongo di Stendhal. Recuperò dal sotterraneo di un palazzo parigino un busto dell’imperatore e da un pollaio piemontese una delle sue carrozze, restaurata e poi esposta a Stupinigi. Sposò una modella norvegese di sangue reale ma subì per felliniana gioia di vivere il vario fascino femminile, accomunato a Federico dagli immancabili ritorni, lui alla scandinava Elna come l’altro a Giulietta Masina. Non avvolse il mistero dei suoi esperimenti di cupezza né di cupidigia, da uomo facoltoso non dovendo chiedere nulla e dando invece quel che poteva. Quando si trattò di usare le sue doti per salvare qualche vita lo fece, durante la Seconda guerra mondiale, barattando le sorti dei civili catturati con gli ufficiali nazisti ai quali riferiva cosa avessero serbato nei cassetti di casa o i contenuti delle lettere che le rispettive mogli imbucavano dalla Germania.
Fole, fanfole, follie? Fatto sta che il Comune di San Secondo di Pinerolo, dove la tenzone astrale fra Rol e i tedeschi era stata disputata in quelle sere, gli rilasciò dopo la guerra un pubblico attestato di benemerenza e lo ha onorato poi nella toponomastica. L’attenzione di Anselma Dell’Olio per la biografia di Rol non sa di partigianeria però commuove la scena in cui lui, salutando ormai molto malato la portinaia del suo palazzo in via Silvio Pellico 31, dice che non si rivedranno più: “Questo mondo sta diventando sempre più cattivo e io non ci voglio stare”. È il congedo, più che di un uomo, del modo di sentire di una generazione che lambì le rive del Duemila ma nuotò nel secolo scorso, saturo di orrori e fulgori, in cui però ogni persona dabbene (tanto più un raffinato cristiano) si poneva l’obiettivo minimale di salutare il mondo senza averlo reso più cattivo di quanto lo aveva trovato. Consapevole, come dice una poesia del principe Antonio de Curtis, che “gente ‘e passaggio, furastiere simme”. Vige oggi più spesso, come se di passaggio fosse il mondo anziché noi, il rovesciato proclama tolemaico dei Millennials con cui Zerocalcare ha intitolato l’ultima serie animata per Netflix: Questo mondo non mi renderà cattivo.
Poche cose fu Rol. Stando alla lapide sulla sua tomba nel cimitero di San Secondo, il “Dr. Gustavo Adolfo Rol” fu semplicemente “capitano degli alpini”. In quell’uniforme, coi gradi ancora di tenente, Mussolini lo aveva convocato a Villa Torlonia nel 1942 per domandargli quale sarebbe stato l’esito della guerra. Non poteva mentirgli e glielo disse, ma tenne per sé la premonizione sulla sorte personale del duce. La fama di Rol richiamò a casa sua molte celebrità nazionali e internazionali e se lui fu solamente, come lo etichettò con sprezzo Piero Angela nel 1978, “un mediocre prestigiatore”, riuscì comunque a strabiliare eterogenei e non mediocri cervelli. Da Cesare Romiti a Vittorio Gassman, da Gianni Agnelli a Riccardo Muti, da de Gaulle a Cocteau, da Pitigrilli a Vittorio Messori. Con loro, una congrua quantità di rinomati clinici torinesi che successivamente avrebbero testimoniato con una mano sul fuoco della genuinità di quegli “esperimenti”. Gli smascheratori del paranormale, come il celeberrimo Silvan e il divulgatore scientifico Massimo Polidoro, definiscono recisamente trucchi quelli di Rol, dalla scrittura a distanza alla trasmutazione delle carte che un illusionista è in grado di riprodurre alla perfezione. Si cammina sul filo del sofisma o del racconto borgesiano, per cui se il somaro del banco di dietro copia a puntino il compito del primo della classe vuol dire che pure quest’ultimo ha copiato (ma da chi?). Con l’assertività sommessa che lo distingueva, Dino Buzzati inviato del Corsera a casa Rol, nel 1965, dopo avere assistito a fenomeni sbalorditivi commentò: “Immaginare, o semplicemente sospettare un trucco è di gran lunga più difficile e assurdo che ammettere il prodigio”. In quel caso si trattava dei quadri dipinti dallo “spirito intelligente” dell’artista lionese François-Auguste Ravier, morto nel 1895.
Neanche Buzzati, colpito dall’aspetto di Rol, preferì precisare chi era quanto immaginare chi non fosse. Smentì che avesse la faccia da “bon vivant” accordatagli da alcuni; piuttosto il suo avrebbe potuto essere il volto di un guru indiano oppure “appartenere a un chirurgo, a un vescovo, a un tenero bambino. Ci si aspetta una maschera impressionante e magnetica. Niente di questo. Ciò che sta dietro a quella fronte, almeno a prima vista, non traspare”. Secondo Fellini, Rol poteva sembrare “un preside di provincia, di quelli che qualche volta sanno anche scherzare con gli allievi e fingono piacevolmente di interessarsi ad argomenti quasi frivoli”. “Ma”, aggiungeva, “nonostante tutta questa atmosfera di familiarità, di scherzo tra amici, nonostante questo suo sminuire, ignorare, buttarla in ridere per far dimenticare e dimenticare lui per primo tutto ciò che sta accadendo, i suoi occhi, gli occhi di Rol non si possono guardare a lungo. Sono occhi fermi e luminosi, gli occhi di una creatura che viene da un altro pianeta, gli occhi di un personaggio di un bel film di fantascienza”.
Uno sguardo tuttavia “accogliente” è quello che rimane nella memoria di Giuliano Ferrara, con i profondi occhi azzurri di Rol assai diversi dalle pupille dilatate del famoso ipnotista da palcoscenico Cesare Gabrielli, forgiatore del proverbiale imperativo “A me gli occhi!” (nobilitato quale “artefice magico” da D’Annunzio ma parodiato da Eduardo De Filippo). Col suo sguardo, rievoca l’attrice Adriana Asti che gli divenne amica, Rol “intuiva le persone” leggendo negli animi non meno che nei libri chiusi. E come nel racconto di John Cheever, in cui “una radio straordinaria” capta e rimanda le conversazioni più intime dell’intero vicinato, le antenne di Rol parvero capaci a quanti lo conobbero di percepire le loro voci interiori, di intercettarne i malanni, di presagire sventure ed elargire ammonimenti per sventarle.
Credere o non credere, forse non è questo il problema. “Nella scienza i racconti non servono a niente”, rimarca Polidoro nella carrellata di voci che si alternano in Enigma Rol alle tante tranche de vie. “Ma i fenomeni paranormali non si presentano con cadenze fisse”, considera Emanuele Trevi. Hanno piuttosto “la capacità di arricchire la tua vita” di un patrimonio che per definizione sfugge alla ripetibilità del laboratorio. E forse il problema non è credere o non credere, quanto dismettere “la boria intellettuale e provinciale” che costringe nel cortile dei preconcetti, come afferma Pietrangelo Buttafuoco approvando la scelta di Rol di “non farsi vidimare nel grande mercato dei prodotti di origine controllata”. Di quella boria si spogliò, tra i pochi, l’antropologo Ernesto de Martino malgrado la tessera di partito e si condusse, per impulsi intellettuali e famigliari, al confronto a tutto campo con l’Inesplicabile negli anni in cui era bollato anche come Inammissibile. Nelle note di regia Dell’Olio osserva: “Il cinema e in generale la cultura italiana sono in prevalenza progressisti, laici militanti, scettici verso la spiritualità e in qualche caso anti-cattolici. Il popolo è invece scaramantico di tendenza e propenso ad affidarsi, ad avvicinarsi al mistero. Da regista auguro a scettici e negazionisti di spogliarsi – temporaneamente almeno – dei propri pregiudizi, e ai devoti di mettere da parte superstizioni e eccesso di entusiasmo”. Riportiamo indietro l’orologio fino al 28 luglio del 1927, quando quel giovane banchiere scontento, spedito dal padre a lavorare in Francia, appunta sull’agenda di avere scoperto inusitate possibilità metapsichiche grazie a una “tremenda legge” che lega le vibrazioni cromatiche del verde al calore e alla quinta musicale. Una triade su cui molti hanno discettato per dirimerne la connessione mentre noi ci scansiamo (in parentesi notando, solamente, che se si diminuisce l’intervallo di quinta di un semitono si ottiene il cosiddetto diabolus in musica, evitato per secoli ma ampiamente praticato nell’heavy metal). “Il segreto della coscienza sublime” firmato Rol per ora resta tale, chissà se sufficiente a ricordare che forse c’è qualcosa di impalpabile nel calendario di ogni biografia mentre si spende tra il giorno dell’inizio e quello della fine.
P.S. una mattina dei primi anni Ottanta, per averne tanto sentito parlare, chi scrive cercò il numero di Rol sulla guida di Torino e si prese la briga di telefonare. Rispose subito senza fingere, come usava spesso, di essere “il maggiordomo”, e a una domanda impegnativa replicò come se già conoscesse l’impertinente giovane. Il tono fu burbero ma ciò che disse corrispondeva al vero, come anni dopo, non seguendo il suo consiglio, fu dato constatare.