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La recensione

Niente lacrime, il film di Paola Cortellesi lascia solo un gran senso d'impotenza

Marina Terragni

In "C'è ancora domani" emerge una coscienza femminista commovente, ma bisogna andare oltre il caso limite della vittima-assoluta

Ho visto “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi con tutto il rispetto che si deve a un fenomeno culturale e anche sociale: il film svetta in classifica con oltre 11 milioni di spettatori, mangiandosi “The Marvels”, “Trolls 3” e “Comandante”.  Applausi a fine proiezione, gente che piange e tutto il resto. Diligentemente ero andata a vedermi anche “Barbie”, nonne e nipotine infiocchettate fucsia: eventi come questi meritano considerazione. Perfette le scenografie di Paola Comencini, già ammirata per la sua Magliana anni Settanta in “Romanzo criminale” (serie). Brava Emanuela Fanelli che si avventura fuori dalla sua stralunata comfort zone per scendere sulla dura terra della Roma postbellica. Cortellesi invece, perfettamente professionale, non riesce a liberarsi da una certa insincerità recitativa, sguardo attonito e piega amara delle nasolabiali. Io e la mia amica usciamo dal cinema con le ossa rotte. Non abbiamo pianto, a tratti abbiamo riso, ma neanche la pizza ci solleva dal senso di impotenza. 

La violenza degli uomini la conosciamo tutte, nella vita e/o nelle genealogie, cazzotti, arroganza e tutto il repertorio della debolezza maschile. Ma la vittima assoluta, com’è il caso della povera Delia-Cortellesi, è un fenomeno veramente raro: botte, insulti, umiliazioni dal marito neanderthaliano (Valerio Mastandrea) e perfino dal suocero invalido che allunga la mano per una palpatio glutei. E lei atarassica fissa, nasolabiali sempre cadenti. Nipote – io – di una splendida ragazza scelta in moglie come una mucca al mercato e affetta da un conseguente disturbo da conversione isterica noto come la belle indifférence; e di un’altra che alle mani alzate del marito rispondeva con autorità “hai giurato rispetto davanti a Dio”; e figlia, sempre io, di un’aspirante contralto castrata nel suo talento che ha organizzato tutta la sua vita intorno alla vendetta, ecco: un minimo moto di rabbia, sia pure convertita, un istante di rivolta da parte di Delia avrei voluto almeno intravederlo. Mi è mancato. Perché un istante così c’è sempre nella vita delle donne che patiscono violenza: la vittima assoluta è un animale immaginario. 

Anna Magnani in “Bellissima”, a cui il film di Cortellesi attinge a piene mani, sa tenere a posto il marito manesco e in casa è l’autorità indiscussa, fa, disfa, decide: “… Non c’è niente da fare”, ammette lui: “La conosco bene”. Lila, sfolgorante protagonista della quadrilogia “L’Amica Geniale” di Elena Ferrante, passa l’inferno: il padre che la scaraventa dalla finestra, il marito che la fa nera. Eppure da quella violenza brutale resta intoccata, capace di una forza che le impedisce di essere vittima. È qui la sua luce. Delia invece rinuncia a ogni riscatto personale e si abnega per la figlia. Tutto per lei, anche quei quattro soldi rosicchiati. “E ndo’ vado?”. Ma si può andare via anche senza spostarsi di un metro. E poi tra l’altro le madri maltrattate sono spesso donne sessiste-autosessiste che istruiscono le figlie a chinare il capo come l’hanno chinato loro.

Del film di Cortellesi non mi sono piaciuti gli stereotipi poveristici: seminterrati umidi, credenze scrostate, camicette rammendate, un certo classismo pariolino. Ma la violenza maschile non ha classe, sono trent’anni che lo strilliamo. Gli intermezzi “musical”, Dio mio no. Ma credo si tratti della mia idiosincrasia per il genere. E poi il Military Policeman nero americano femminista che regala cioccolato e prova a soccorrere Delia: stupratori di segnorine, violenti come non mai, siamo pieni di figli della guerra e di tammurriate nere. Sul finale non posso spoilerare: se non dire che all’esito costituzional-repubblicano, con il neanderthalman che immancabilmente accorre per risolvere a cazzotti la questione, avrei preferito una rivolta alla Gulabi Gang. La pizza l’avrei digerita meglio. Probabilmente con una morta ammazzata ogni tre giorni – tendenza all’aumento – un po’ di fiducia nelle istituzioni l’ho perduta. Non ho visto un capolavoro ma sono consapevole di essere un’eretica: se lo è per un numero così grande di donne dev’essere perché il livello di violenza sommersa è tale che tante, tantissime si identificano e si sentono riscattate da un personaggio debole com’è Delia. Una coscienza femminista elementare di massa com’è stata, mutatis mutandis, quella rivelata dal successo planetario di “Barbie”. Coscienza che mi commuove e che onoro, ma ho urgenza di spingere verso il livello successivo: la percezione della propria forza e della fragilità degli uomini, l’assunzione della propria autorità. 
Credevo ci fossimo già arrivate. A quanto pare non è così. 

 

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