La recensione
Anche Milano ride guardando la Roma santa e dannata di Dago
Il film di D'Agostino è riuscito a far ridere persino la platea milanese divisa fra sensi di colpa e la superiorità di chi vive in una città in cui la metropolitana passa e la spazzatura la raccolgono davvero
Presentare un film romanissimo a Milano può essere più pericoloso che ordinare una parmigiana di melanzane a Bolzano. Eppure, l’altra sera all’Anteo, alla proiezione di “Roma, santa e dannata” di Roberto D’Agostino & Marco Giusti (e anche Daniele Ciprì, che della coppia santa e dannata è il regista) c’era tutta Milano, dal sindaco Sala in giù. E allora ecco Urbano Cairo e Gian Arturo Ferrari, avanti con Roberto Formigoni (in giacca principe di Galles invece che nei famigerati rosini e giallini, e poi dicono che la pena non rieduca) e Sergio Cusani, forza con Natalia Aspesi, Milena Gabanelli e un po’ di penne assortite e grate, perché si sa che essere ripresi da Dago è come vincere un piccolo Pulitzer quotidiano (Lucarelli, Mascheroni, Barbacetto e quelli del Corrierone, al solito, in forze, addirittura in tre: Morvillo, Panza e Franco). Arrivano un po’ di stiliste e sciure, in sostanza indistinguibili, il regista Luca Guadagnino, il banchiere Massimo Ponzellini, Antonio Ricci, e qui peccato davvero che non ci fosse anche Giambruno, perfino S.A.R. Aimone di Savoia-Aosta. Insomma, tutta la Milano potentona a bearsi di riti e miti della Roma godona. “Ce manca soltanto il cardinale”, come chiosato nel fervorino iniziale dallo stesso Dago, forse ignaro che Milano, il cardinale, non l’ha più (un altro scherzetto romano, questa volta dal lato vaticano).
A Milano, com’è noto, si ama Roma un po’ meno di quanto Putin ami Zelensky (e viceversa). L’ostensione del Dagofilm suscita quindi qualche considerazione di antropologia spicciola. Ovviamente non sul film, un delizioso conversation piece (vulgo: cazzeggio) che si colloca fra un sonetto del Belli e il Super Eliogabalo di Arbasino, perfino con una sua nascosta vena malinconica e nostalgica, e già giustamente ben recensito ovunque. No: sugli spettatori. Pur nella loro sobrietà armaniana, nemmeno i milanesi hanno potuto non ridere ai molti pezzi di bravura del documentario, tipo Carlo Verdone che racconta il memorabile festival della poesia a Casalpalocco, quando il palcoscenico con sopra Allen Ginsberg crollò sotto il peso della folla calamitata da un enorme paiolo di pasta e fagioli. Ma lo facevano sentendosi in colpa per il fatto di divertirsi, e biasimando sfrenatezze ed efferatezze mondane degli autoctoni come un missionario vittoriano nella tribù di poligami: che sbrago, che deplorevole mancanza di understatement in questa capitale da sempre sentita molto più lontana e aliena di Vienna, con cui almeno c’era in comune il culto della cotoletta e delle pratiche sbrigate subito, non lasciate ad ammuffire sulle scrivanie dal tempo dei visigoti.
Di fronte allo sfrenato e sfrontato divertimento capitolino, al cinismo come regola di vita, al “che sarà mai” anche davanti al marziano di Flaiano o a un Papa polacco, ricicciava nella pur plaudente platea la controriforma punitiva dei due Borromeo, l’illuminismo lombardo, il cattolicesimo sociale, insomma tutta l’insostenibile pesantezza dell’essere milanese. Quindi sì, alto gradimento per i racconti di Vladimir Luxuria sui frequentatori del Muccassassina non ancora normalizzato dal politicamente corretto o di Dago e Renato Zero che vanno a sbattere in auto e finiscono dentro la vetrina delle pompe funebri, soccorsi fra tombe e marmi (e poi, al pronto soccorso, Renato in tutina di lurex ospedalizzato nella corsia delle donne): irresistibile, davvero. Ma sempre un po’ divisi fra il senso di colpa per la risata e quello di superiorità perché si vive in una città dove la monnezza la raccolgono e la metropolitana passa davvero. La conferma la si è avuta al party post prima (pasta al pomodoro e gin tonic, così chic) quando alle undici e mezzo, come a un segnale invisibile, tutti se ne sono andati a casa, che l’indomani bisognava produrre. Ma, colpiti dal fuoco amico daghesco, con un inconfessabile sospetto, un piccolo tarlo che rode le cervici longobarde e viscontee e svizzere (anzi, ticinesi): non è che, per caso, Roma sia più divertente? Il sospetto resta. E non è l’ultimo merito di questo film deliziosissimo.