Due film per capire la terza America
Un pornodivo in disarmo e uno scrittore nero di poco successo ci fanno riscoprire un paese pulsante e un po’ fallimentare, molto dubbioso, ma in grado di non farsi incenerire da uno sbrigativo (e falso) happy ending
Una terza America. E’ una modesta proposta che si può intuire tra le pieghe di certo cinema d’oltreoceano, marginale ma vivo. Capace perfino di farci intravedere una possibile declinazione dell’american way of life priva dei deliri nevrotici ormai disseminati dovunque e delle irruente frustrazioni dell’onnipotenza trumpiana, col suo seguito di disgrazie psicosociali. Pensate cosa rappresenta, da cosa sia animata, cosa racconta, questa terza America: una normalità completamente imperfetta e una disposizione al compromesso collocata all’estremo opposto della grandeur strombazzata dai media propagandistici. E con essa l’arte di arrangiarsi, adattarsi, riciclarsi, riorganizzarsi e sopravvivere. Che meraviglia, viene da dire: con questo genere di americani potremmo pensare di tornare a relazionarci quasi subito. Usiamo due pellicole come indicatori, ma ce ne sono altre, che ne condividono i parametri e gli intendimenti, al punto da far sospettare l’insediamento di una scuola di pensiero spontanea, che sta salendo quietamente a galla mentre nelle urne sparse per gli stati del Grande Paese va in scena lo spettacolo traballante della peggiore corsa elettorale degli ultimi decenni, per eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti col ballottaggio tra due contendenti degni di una pièce di Ionesco. Dunque due film dall’apparenza modesta, che pure aprono il cuore alla speranza, come sa fare il grande cinema nei suoi momenti migliori. Modestissimi anche per budget, con limitata pretesa di spesa e di sostentamento: si può ancora fare cinema così in America – senza per forza assoggettarsi alla penalizzante qualifica di “indipendente”, da molti presa come una prerogativa peggiorativa, che equivale a dire intellettualoide velleitario. Macché, queste sono storie chiare e forti, che per essere raccontare necessitano d’intelligenza, stile, misura e talento, ben più che di capitali.
I titoli: “Red Rocket”, transitato a Cannes e anche al festival di Roma, firmato dal un regista modello cinephile, elegante-colto-informato: Sean Baker, natali nel New Jersey, Tarantino e i Coen come astri fissi, si era già fatto notare col notevole “Un sogno chiamato Florida”, con il quale, per molti versi, “Red Rocket” è in risonanza. Il suo film è costato appena 1,1 milioni di dollari, spiccioli sul metro hollywoodiano e ne ha incassati il doppio, ma non è questa la sostanza del discorso.
Il secondo film è “American Fiction” diretto dal debuttante Cord Jefferson, sanguemisto black & white, tratto dal romanzo “Cancellazione”, del molto stimato autore nero Percival Everett. Budget 1,8 milioni di dollari, buoni incassi e soprattutto una nomination agli Oscar come miglior film americano del 2023.
Allora ci risiamo con l’elogio del cinema indipendente, potreste chiedere? Non è così semplice, perché qui il discorso va imboccato da diversi lati: quello economico, quello culturale, perfino quello della riflessione politica attorno alla funzione del cinema, e infine quello cinematografico tout court. Perché nella crescente, insopprimibile stanchezza che da qualche anno avvolge tanti osservatori di cose americane, sovente uno dei crucci più dolorosi riguarda la traiettoria imboccata col nuovo millennio da Hollywood e la sua deriva sul gusto americano, con filoni produttivi uno per l’altro a dir poco sconcertanti, tra la deflagrazione dei supereroi e dello stolto immaginario ultra-possibile, gli zoppicanti tentativi di grandeur, con megabudget anacronistici alla “Babylon” (ci metteremmo anche il pretenzioso “Oppenheimer”), fino ai cascami dei remake d’accatto, dei sequel, degli action ipervitaminizzati. Il quadro che arriva dalla città del cinema è di un’America senza varchi, votata al culto della forza, della sopraffazione, con tentazioni superomistiche, perfetto pendant all’ipotesi politica meno plausibile a cui si potesse pensare: il ritorno alla Casa Bianca dell’uomo che ha fomentato l’assalto al Campidoglio della democrazia americana. Brividi. Un po’ mitigati da questo spuntare di opere che incarnano un dichiarato dissenso a quegli scenari, dedicandosi con slancio naturale a ritrarre forme di umanissima imperfezione americana, prodotti disfunzionali di quella società, relazioni, catarsi, incertezze e tutto il campionario umano assente dall’aspirazione alla perfezione dell’ultima estetica hollywoodiana, con le sue banali parabole di contrapposizione tra bene e male, o meglio, tra bene prestabilito e variazioni perniciose, destinate a incenerirsi negli happy ending. Questa riscoperta di un’America pulsante e un po’ fallimentare, mobile, approssimativa e dubbiosa, torna ad attrarci.
Il pornodivo in disarmo Mikey Saber, interpretato con energia cinetica dal vero pornodivo Simon Rex in “Red Rocket”, è il protagonista di una storia sulla reinvenzione del sé, a latere dell’approssimazione di un perdente patentato, sullo sfondo di un Texas diseredato, gonfio di fast food e di fabbriche inquinanti. In una trama popolata di lupi e pecorelle, propone un erede del grande Lebowki (se mai ci fu pellicola profetica) che spiega, meglio degli editoriali del New York Times, perché Trump già nel 2016 avesse le carte in regola per vincere (e ha vinto). E perché, dal momento che le cose nel frattempo si sono pandemizzate e ancor di più estremizzate, Trump può tranquillamente rivincere, se qualche giochino magico di un anonimo giudice di provincia non riuscirà a impallinarlo. “Red Rocket”, coi suoi sogni di cartapesta, contiene una delle possibili chiavi d’interpretazione per capire l’istupidimento d’una nazione dietro a un pifferaio magico tanto ridicolo. Mentre invece “American Fiction” con la sua vicenda familiare minima, girata in tre settimane sul litorale di Boston, spalanca le ante dell’armadio che conserva il più putrefatto degli scheletri nazionali. Si parla della questione del risarcimento afroamericano, della convivenza dei bianchi con la colpa congenita e della prodigiosa soluzione elaborata al riguardo dai salotti liberal: dare ai neri quel che è dei neri, o meglio, che loro bianchi pensano lo sia, nel senso che dovrebbe soddisfare il desiderio afroamericano di una degna rappresentazione – i cui confini, il cui stile e perfino i cui stereotipi, naturalmente, continuano a essere governati dai bianchi. Insomma la storia di come prendere per stanchezza – e anche per i fondelli – una componente di coloro che sono i tuoi compaesani. Perché la questione dell’intersezione tra l’esperienza nera e le intenzioni dei liberal bianchi sta diventando un leit motiv dell’ultimo cinema nero: “Get Out” di Jordan Peele, ha esplorato con successo e risonanza le oscure motivazioni alla base del progressismo bianco, inoltrandosi in territori fino allora off limits, oltre i bastioni del perbenismo culturale americano, a cominciare da quel desiderio/repulsione per il corpo nero di cui tanto ha scritto Ta Nehisi-Coates. L’unico problema attorno ai riscontri ottenuti da Peele è che la bolla elogiativa che ha circondato il suo film in fondo riproduceva esattamente ciò che il film satirizzava. Ma in questo senso “American Fiction” dimostra d’essere un progetto più sofisticato, evoluto e anche più sfuggente.
La storia è quella di Thelonious “Monk” Ellison (un memorabile Jeffrey Wright), nero, professore e scrittore di mediocre successo, alle prese con una seria crisi di significati: i suoi libri non interessano più a nessuno perché l’élite intellettuale bianca ha dettato la regola che dà spazio e munificenza agli scrittori neri che contribuisco alla rappresentazione di una blackness orgogliosa e folclorica, cazzuta e circoscritta a come ci siamo abituati a vederla effigiata – ghetto, violenza, slang, crack e riscatto dell’eroe in direzione di una normalità simil-bianca. A Monk ripugna questa schematicità culturale che alla fine è puro marketing, ma, quando l’assapora mettendosi ironicamente in gioco nella parte del “nero più nero che c’è”, finisce magicamente imprigionato dalla ragnatela di gratificazione e riconoscimenti che ne conseguono, in quello speciale mondo che non è più bianco o nero, ma è condiscendente. E il suo slancio di misantropo compassionevole si discioglie al cospetto della debolezza umana, che non ha né razza, né epoca. La morale? Non è facile, non è per niente facile smontare un meccanismo su cui è stata edificata un’architettura sociale, perché non basta dichiararla conclusa e annullarla, come un esperimento fallito. Il razzismo e la supremazia sono dentro, connessi a un tessuto che non si ripara strappandolo. Il piccolo film di Cord Jefferson intercetta questa contraddizione con pungente ironia e col preciso intendimento di non dare soluzioni.
Questi due film ci piacciono appunto perché non risolvono la crisi americana, non pretendono di dire che è stato tutto un abbaglio e che adesso lo sappiamo e perciò si tornerà a cavalcare insieme. Il problema è più grande, è visibile ovunque, elezioni comprese, e nel denunciare i passati errori si riproduce l’errore, ovvero si mantengono i princìpi di un equivoco collettivo che solo profonde riflessioni, agnizioni e confessioni potrebbero risolvere. Ecco: l’America si dovrebbe sdraiare tutta insieme sul divanetto dello psicologo. Su altre problematiche l’aveva capito Philip Roth e aveva provato a dirlo ai connazionali. Ma di nuovo era scattato il barbatrucco: se lo diciamo e ne ridiamo, siamo guariti. Non è così: ci vuole tempo, ci vogliono figure di riferimento (e non se ne vedono all’orizzonte) e ci vogliono perfino piccoli film che producano, se non altro, piccole sacche di resistenza. La malattia americana non si cura con una violenta dose di antibiotici. Ma forse una routine di yoga mentale che preveda anche il guardare queste storie e il rifletterci sopra seriamente, confrontandosi e facendosi domande, potrebbe contribuire in direzione della convalescenza.