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La notte degli Oscar 2024: tutti i candidati, le pellicole e i possibili vincitori
Tra i film in lizza c’è chi riesce a raccontare le nostre ipocrisie e chi invece ci riesce meno. La cosa che li accomuna è il successo cinematografico guadagnato nelle sale. Il nostro preferito? "American fiction"
"Carina, ma fa venire i brividi". Ai Golden Globe del 2015, Tina Fey e Amy Poehler scherzavano su Emma Stone che faceva il tifo per “Birdman” di Alejandro González Inárritu. Ha gli occhi smisurati, la ragazza, e anche una bocca da fumetto, grande abbastanza per ingoiare le rivali, oltre alle malelingue. Quest’anno è in prima fila per l’Oscar come migliore attrice, nel film “Povere creature” di Yorgos Lanthimos. Potrebbe sottrarle la statuetta (a nostro insindacabile giudizio) solo Sandra Hüller, bravissima in due film carichi di candidature: “Anatomia di una caduta”, diretto da Justine Triet, e “La zona di interesse”, diretto da Jonathan Glazer. Staccate – entriamo nell’antipatica “zona sofferenza” – la nativa americana Lily Gladstone in “Killers of the Flower Moon” di Martin Scorsese (si lascia avvelenare per amore di Leonardo DiCaprio, che qui ahimè fa solo smorfie imitando De Niro che fa le sue), e pure Carey Mulligan in “Maestro”, moglie di Leonard Bernstein che la tradisce con i giovanotti (dopo aver ripetuto che “va bene così, è un matrimonio felicissimo”, inizia la malattia, pallore e foulard in testa). Più staccata ancora, tra le colpevoli di esibizionismo, Annette Bening con “Nyad”: la scommessa di Diana Nyad che a 60 anni decise di ritentare l’impresa fallita 30 anni prima. Nuotare da Cuba alla Florida, 177 km senza una gabbia anti-squalo. L’attrice ne ha ricavato uno stile di vita, oltre che di nuoto: con disciplina si allena tutti i giorni. Per carità, c’è pure un pubblico per i film motivazionali, noi abbiamo avuto il più banale “Dieci minuti” di Maria Sole Tognazzi: fare ogni giorno per dieci minuti qualcosa di nuovo, l’Oceano verrà. Personaggio realmente esistito, grande impresa, recitazione contraria agli insegnamenti di Laurence Olivier – quando gli dissero che De Niro non si era lavato per una settimana, dovendo fare il barbone, domandò: Non sarebbe più facile recitare? Tutta roba che agli Oscar di solito paga.
Peter Bradshaw sul Guardian è perdutamente innamorato di “Povere creature”. “Tanto diverso dalle antipatiche lezioncine che circolano sul web”, scrive meritando tutti i nostri applausi (però solo il giornalismo nostrano imbastisce paginate su un tweet). L’osservazione vale anche per altri titoli tra i dieci candidati a miglior film (le altre categorie sono organizzate in cinquine). “Povere creature” – Emma Stone fabbricata da una specie di Frankenstein con la faccia di Willem Dafoe – non ha lo spirito didattico di “Oppenheimer” (e solo i fan sfegatati di Christopher Nolan non si sono accorti delle lungaggini). Un attore strepitoso come Cillian Murphy se ne sta con cappello e panciotto sulla camicia candida – anche nel laboratorio di fisica, quando scrive alla lavagna con i gessetti. Altro intruso, dal punto di vista spettacolare, il coreano “Past Lives” di Celine Song: il triangolo amoroso è da lacrime facili, senza avvertire la magnetica presenza del nuovo fidanzato americano: ebreo, belloccio, molto comprensivo
“American Fiction” di Cord Jefferson è il nostro candidato, scartando i film scarsi o pedanti, e quelli che si difendono da soli: “Povere creature”, “La zona d’interesse”, “Anatomia di una caduta”. Ha vinto il Festival di Cannes, la Francia non ha voluto candidarlo come film straniero (per certe dichiarazioni che hanno irritato il governo). Hanno preferito pentole e fornelli di fine Ottocento filmati da Tran Anh Hung, vietnamita naturalizzato francese. Titolo: “La passion de Dodin Bouffant”.
“The Artificial Nigger”. Sta scritto sulla lavagna del professor Thelonious Ellison, che gli amici e i colleghi chiamano Monk. Mormorio, una studentessa alza la mano e chiede l’immediata cancellazione della parola con la “n” – una delle prime espulse dal lessico ammesso in società (i ragazzi neri tra loro possono, e ne fanno una bandiera). La ragazza (bianca) con i capelli blu lascia l’aula mentre il professore (nero) spiega che è un racconto di Flannery O’Connor, magnifica scrittrice del sud americano a cui il corso è dedicato. “Incontrerà molte volte la parola che tanto la disturba, se io mi sono abituato potrebbe farlo anche lei”. La sala professori (non quella del film tedesco, candidato tra i film stranieri) cerca di convincere il professor Monk che è meglio stare lontano dalla cattedra per un po’. Un bel convegno letterario a Boston, magari? Monk arriva incazzato. Gli hanno appena rifiutato un romanzo, secondo l’editore non “abbastanza nero”. Scopre i suoi romanzi nella sezione della biblioteca dedicata agli “studi afroamericani”. Alla sua conferenza il pubblico è scarso. Sono tutti da Sintara Golden – potrebbe essere Amanda Gorman da grande, poco talento e molto orgoglio nero, unito alla fotogenia. Racconta la vita “in da ghetto”, dove peraltro non ha mai dovuto abitare.
Percival Everett – venti anni fa ha scritto il romanzo “Cancellazione”, da cui “American Fiction” è tratto – aveva la vista lunga. L’ha avuta nel suo “Innamorato fisso” anche Maurizio Milani, quando satireggiava “Africani, non dovete dipingere i quadri astratti. Non siete maturi, disegnate piuttosto giraffe e gazzelle”. Questo il pubblico vuole dai neri: qualche miseria e violenza nel ghetto. Monk è sul punto di esplodere (intanto gli è morta una sorella, e ha la madre con l’Alzheimer, un fratello che organizza festini nella casa al mare). Per rabbia, mette mano allo sgrammaticato romanzo “My Pathology” – poi corretto in “pafology” che fa più nero illetterato. Successo strepitoso. La letteratura è così “fuor di sesto” che nella burla i suoi editori vedono “una profonda sofferenza, chi non l’ha provata non può scrivere così”.
Peccato che il romanzo – in inglese “fiction” – voglia dire invenzione. Non serve attribuire storie d’amore a Jane Austen, come ormai usa fare il cinema. Trattano male anche Shakespeare, per pari opportunità: “Shakespeare in love” di John Madden è un delirio. Will appallottola e butta via i fogli con tre parole sopra (quando la carta era preziosa e scrivevano sui margini dei libri altrui) e si deve innamorare prima di scrivere di corteggiamenti. Le sorelle Brontë, pure loro, sono maltrattate nel film “Emily”. Dalle scrittrici, oggi, gli editori aspettano donne vittime. E loro, invece di approfittare della presa di parola, eseguono. Se non sei abbastanza maltrattata (atroci violenze in famiglia, per esempio) non ti pubblicano, perché il romanzo resterà sugli scaffali. Succede nel film “A dire il vero” di Nicole Holofcener, che racconta le donne senza piagnistei (non lo troverete tra i film che si litigheranno l’Oscar). Non ha avuto un’infanzia abbastanza infelice. Ogni storia inventata, con con vari personaggi, rischia l’accusa di “appropriazione culturale”.
Quando si muoveva nel “territorio del diavolo” (sempre parole di Flannery O’Connor, dal suo libro sul mestiere di scrivere) la letteratura allargava l’orizzonte, invece di restringerlo all’ombelico. Da un romanzo di Martin Amis viene “La zona di interesse”, candidato a miglior film. Per anni abbiamo spettegolato sulla predilezione che i giurati dell’Academy hanno per i film sull’Olocausto. E i francesi, che tengono tanto all’etica, hanno posto la domanda (retorica). È giusto scegliere attori macilenti, vestirli con la tuta a righe, ricreare sul set le baracche e le camere a gas? In “La zona d’interesse” – il terreno-cuscinetto attorno ai campi di concentramento, territorio del diavolo se mai ce n’è stato uno – segue come in un reality la vita nella casetta con giardino che Rudolf Höss, comandante del campo di Auschwitz, si fa costruire proprio lì, vista sul muro e sulla torretta. Manca solo la scritta sul cancello, “hic manebimus optime”: il lavoro è dietro l’angolo, la vita in famiglia con moglie e figli procede tranquilla, la servitù ha grembiule e crestina, gli ingegneri fanno nuovi progetti (stanno arrivando gli ebrei deportati dalla Polonia) e stendono i disegni sul grande tavolo di legno. Non sempre si può stare in giardino, se il fumo dei camini cambia direzione verso le aiuole fiorite gli invitati tossiscono. Tutto il resto lo racconta la colonna sonora, agghiacciante.
Tra i maschi protagonisti, Cillian Murphy di “Oppenheimer” deve vedersela con Paul Giamatti di “The Holdovers” (candidato anche il film) e Jeffrey Wright di “American Fiction” (altro possibile miglior film, ma i giurati non hanno l’ironia, preferiscono il genere “Selma” di Ava DuVernay: le marce per il diritto di voto nel 1965). Scrive il Los Angeles Times, su Giamatti e Wright: “Il mestiere si arricchisce con due nuove sfumature di scontrosità”. Il naso posticcio di Bradley Cooper, truccato per somigliare a Leonard Bernstein in “Maestro”, ha fatto litigare. Bizzarro, quando ormai i trucchi prostetici – ricordate Gary Oldman che fa Churchill? non cercano neanche più un attore somigliante – sono usati in abbondanza. Della candidata Carey Mulligan – Felicia Montealegre, che di Bernstein fu la consorte – abbiamo già detto che è la parte debole del film. Tifiamo per l’attrice Sandra Huller, e la regista Justine Triet che spicca tra quattro maschi già assai premiati: Martin Scorsese, Christopher Nolan, Yorgos Lanthimos, Jonathan Glazer.
Su dieci film candidati, tre sono diretti da donne: “Anatomia di una caduta” di Justine Triet e “Barbie” di Greta Gerwig, entrambi meritevoli con lode. In quota “quote”, il sopravvalutato coreano “Past Lives”, regista Celine Song. Lo scandalo è “Barbie”, che non trascina la regista Greta Gerwig e neanche la protagonista Margot Robbie, come se il film si fosse ideato, girato, recitato da solo – Ryan Gosling-Ken, candidato come attore non protagonista, ha lamentato l’incomprensibile scelta. Candidata solo la sceneggiatura non originale, scritta a quattro mani da Greta Gerwig e Noah Baumbach. La bambola sui tacchi che nella magnifica scena d’apertura – alla maniera di Stanley Kubrick, “2001: Odissea nello spazio” – libera le bambine dal cicciobello nella carrozzina giocattolo, ora e sempre è firmata Mattel.
Capitolo sceneggiature originali. Oltre a “Maestro”, a “The Holdovers” scritto da David Hemingson, a un paio di soliti noti come “Anatomia di una caduta” e “Past Lives”, c’è “May December” di Todd Haynes. Uno di quei film che quando escono vengono applauditi e candidati a tutto. Le attrici, in particolare: Julianne Moore e Natalie Portman. Poi si sgonfiano. Giustamente, nel caso di “May December”. Todd Haynes è un regista che abbiamo adorato – per “Velvet Goldmine”, “Lontano dal paradiso”, “Carol” – e ora perde colpi. Il titolo si riferisce agli oltre 20 anni di differenza tra Julianne Moore e il tredicenne che si era portata a letto. Va in prigione, partorisce il figlio della colpa, dopo la scarcerazione i due si sposano e hanno altri figli gemelli.
Tra i film stranieri l’Italia ha finalmente un candidato forte. Matteo Garrone con “Io capitano”. Nelle sale italiane ha sfiorato i 5 milioni, un altro milione abbondante lo ha incassato in Francia. Non si potevano pretendere i 39 e rotti milioni di “C’è ancora domani”, regista e prima attrice Paola Cortellesi, con un film parlato in lingua wolof (si sa che lo spettatore italiano è allergico ai sottotitoli, magari con la scusa cinefila “sporcano l’immagine”). Racconta il viaggio di due ragazzi dal Senegal alle coste italiane. Vogliono fare musica, sognano autografi firmati dai bianchi. In patria hanno una famiglia e cibo in tavola. Sarà il calvario che conosciamo, ma un conto è leggerlo un conto vederlo sullo schermo. Traversata del deserto, torture nelle prigioni libiche, soldi e soldi per i trafficanti e l’ultima trovata degli scafisti: riempire la barca di poveretti e affidare a uno di loro il timone: “sempre dritto finché non vedi terra”. Storia vera, verissima, vedremo come i giurati se la cavano con il wolof. Potrebbero preferire “La sala professori” di Ilker Catak. Il candidato tedesco che didatticamente mette in scena la professoressa democratica alla ricerca del colpevole di certi furterelli nelle aule. Per vendicare l’onore del ragazzino turco ingiustamente accusato, ricorre a ogni mezzo. Come che sia, riprendere con il cellulare i colleghi, a loro insaputa, non è una mossa corretta. Meglio allora il giapponese che pulisce i gabinetti pubblici di Tokyo, in “Perfect Days” di Wim Wenders: osannato da decenni, finalmente ha azzeccato un film.
Lunedì all’alba sapremo chi ha vinto e chi ha perso, chi ha ringraziato troppo a lungo, chi è andato a braccio e chi ha estratto il foglietto spiegazzato dalla tasca. Sperando che sul red carpet non succedano figuracce come quelle raccontate sul Guardian da Zoe Williams, con il titolo “What a ridiculous question!”. Intervistatori confusi, e Hugh Grant che alla domanda “di chi è il vestito che indossa?” borbotta: “E’ mio!”.
Politicamente corretto e panettone