Il commento
Ecco i primi ad aver delirato sul complotto giudaico-massonico del cinema
Un tempo il film italiano che non entrava nella short list era occasione di un esame di coscienza collettivo: partiva la fatidica "analisi della sconfitta", come nel Pd. Oggi, invece, è tutto un accanimento complottista, quasi una grillizzazione del cinema
Tu pensa che diavoleria questi ebrei! Prima fanno vincere Jonathan Glazer con un film su Auschwitz, perché “gli ebrei vincono sempre”, come spiega Ceccherini. E ritirando il premio gli fanno fare un discorsetto “proPal”, come “ebreo che confuta il dirottamento dell’Olocausto” tra gli applausi scintillanti dell’Academy. Il paradiso di ogni complottista. Un doppio, triplo, quadruplo gioco della cospirazione giudaica di Hollywood. E tanto per non dare punti di riferimento, il film di Garrone è distribuito negli Usa da “Cohen Media Group”, tiè. E dire che il povero Garrone era riuscito nell’impresa di fare un film non piagnone sull’immigrazione. Non era mai stato tra i favoriti, trovandosi in una short-list con due grandi film, Glazer e Wenders. “Io, Capitano” non è un film a tesi. Non è un ricatto morale, ma il racconto di un’impresa avventurosa, libertaria, salgariana. Oggi si ritrova circondato da una corte di piagnoni che se la prendono con gli ebrei, gli americani che non capiscono niente di cinema, e Glazer che ha vinto perché è il solito raccomandato (non perché parte da un gran libro di Amis, si prende cinque anni per lavorare solo sul sound-design, e alla fine reinventa da capo Auschwitz al cinema dopo settant’anni di film sui campi). Mereghetti e altri critici bofonchiano. In Italia circola la tesi: non ha vinto Glazer, ha ingiustamente perso Garrone, perché “si sa come vanno certe cose”. È la grillizzazione della critica.
Un tempo il film italiano che non entrava nella short-list, o entrava e non vinceva, era occasione di un esame di coscienza collettivo, non di rado esagerato, come l’isteria opposta quando si vinceva. Partiva la fatidica “analisi della sconfitta”, come nel Pd: Dove abbiamo sbagliato? Cosa non va nella nostra industria? Come possono i nostri film essere competitivi sul piano internazionale? Oggi è tutto un ammiccamento complottista. Un dico-non dico, come il post di Sabrina Ferilli: “Se dovesse vincere ‘La zona di interesse’, so perché vincerebbe, non certo perché è un film migliore di ‘Io, Capitano’”. Grillismo puro. Anche nella prosa. Un po’ sovranismo, un po’ anticasta, e una bella spruzzata di antisemitismo che non guasta mai. Il complotto giudaico-massonico di Hollywood è un grande classico e da noi ha radici nobili e antiche. Un aspetto poco noto delle Leggi razziali è il clima di entusiasmo con cui furono accolte dal mondo cinematografaro di allora. Non abbiamo avuto un film come “Süss l’ebreo”, emblema della politica antisemita del cinema nazista, ma lo abbiamo esaltato nelle riviste di cinema più prestigiose, dove si tessevano le lodi di Goebbels. Riviste culturali come Bianco e Nero (ancora oggi la rivista del Centro sperimentale di cinematografia), o magazine popolari come Film, si lanciarono in entusiastiche campagne antisemite, offrendo un vigoroso supporto a “La difesa della razza” di Telesio Interlandi.
Tra i tanti, ricordiamo, “Gli ebrei nel cinema”, un lungo saggio di Domenico Paolella. Sintesi: il cinema era nato come arte, poi gli ebrei lo avevano trasformato in un’orrenda macchina per fare soldi. Un vile commercio. Non perseguivano l’elevazione dello spirito, facevano leva sulla sensualità con “le menzogne delle ciprie” (Greta Garbo), solleticando gli appetiti più bassi dello spettatore. Peggio di tutti erano Chaplin e Lubitsch, perché la loro influenza nefasta “giunge per vie insospettabili, come il riso”. Spettava allo stato, scriveva l’antisemita Luigi Chiarini, direttore di Bianco e Nero, “difendere l’arte del cinema dalle bassezze del mercato, disintossicando il pubblico dal veleno di Hollywood”. Era colpa degli ebrei se il pubblico preferiva i film americani ai nostri (non a caso dopo un po’ ce ne siamo sbarazzati, sia degli ebrei che dei film americani). Ahimè non è che sia cambiato molto. Ceccherini e Ferilli si riallacciano a una solida tradizione. Vale la pena però ricordare che fine ha fatto Paolella. Dopo la sua difesa della vocazione spirituale del cinema italiano, passò indenne dal fascismo all’Italia repubblicana. Fu quindi regista e autore infaticabile di pellicole d’arte pura, come piaceva a lui, “I Teddy boys della canzone”, “Gardenia il giustiziere della mala”, “Maciste contro lo sceicco”. Una bella storia italiana.