Non è solo l'industria del sogno. Il cinema spiegato a Sangiuliano

Nonostante la ripresa, è un momento comunque delicato per il cinema, il cui indotto arriva fino al turismo. “E' necessario sbloccare tax credit e contributi”, dicono gli addetti della filiera

Marianna Rizzini

Gli spettatori tornano nelle sale, l’industria si è rilanciata dopo la crisi del Covid, ma i guai non mancano. L’incertezza sul tax credit, il rischio per le produzioni: timori e speranze di un settore che ha un effetto moltiplicatore sul pil trascurato dal governo. Indagine

Il grande teatro nuovo in costruzione si staglia con le sue impalcature, tralicci e piani quasi costruiti contro il cielo capriccioso di primavera, tra luci, ombre, nuvole in viaggio e vento, proprio accanto alla collina che fa da base alle produzioni più esotiche di Cinecittà, quelle per cui le maestranze (giardinieri, falegnami, pittori) montano, piantano e costruiscono foreste tropicali per piccole e grandi giungle da simulare lontano dalle giungle vere. La giacca fosforescente di un operaio ricorda che quella, anche se non sembra, è opera umana: la mastodontica costruzione che entro due anni potrà ospitare molte altre produzioni di film e serie tv. Si chiama Teatro 22, è il più grande dei cinque teatri nuovi previsti negli ettari al limitare degli Studios, su schema e fondi Pnrr per la Cinecittà del futuro prossimo dietro l’angolo (diventerà realtà tra il 2025 e il 2026). La simbologia, non a caso, ha cercato di precedere la realtà proprio in questi luoghi, fin dall’avvio del percorso italiano del Pnrr, il 23 giugno del 2021, sul prato della ex “Hollywood sul Tevere”, con l’allora premier Mario Draghi e la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen sorridenti sotto il sole, sull’onda della frase “che idea fantastica!”. Idea fantastica vedersi lì, diceva von der Leyen mentre Draghi annuiva. Entrambi socchiudevano gli occhi nella luce d’inizio estate, stretti tra due enormi cartonati, sibillini nel lessico ma non nella sostanza: “Make it real”. Metti a terra il Pnrr, era il concetto. In particolare, metti a terra il progetto per Cinecittà, cosa che sta avvenendo secondo il piano industriale degli ultimi tre anni, con direzione dell’ad Nicola Maccanico. 

  
Ma non è soltanto il colpo d’occhio a far registrare le novità tra set e vialetti, scolaresche in visita e musei con capacità rinnovata di accoglienza (il Museo italiano del Cinema e dell’Audiovisivo), tra la testa della Venusia (la scultura del “Casanova” di Federico Fellini) e l’allestimento permanente di Roma antica che si allunga in fondo agli Studios, con il foro, l’arco di trionfo e l’anfiteatro, ogni volta diversa a seconda delle esigenze di produzione pur nella sua immutabilità, straniante presenza a poca distanza dai cantieri e dalle squadre che lavorano in pianta stabile tra l’hangar del Cine Garden (piante e giardini per set) e i capannoni della falegnameria, dove scenografie blu e verdi di chissà quale film spuntano dietro l’angolo, forse porte e finestre di una città immaginaria appoggiate ad asciugare al sole. La curiosità porta anche l’avventore a sbirciare tra le vie della cittadella simil-messicana costruita per il nuovo film di Luca Guadagnino (ancora inedito) o tra quelle della Milano anni Trenta, scenario della serie “M. il figlio del secolo”. Oppure dietro le porte del teatro storico di Federico Fellini, rimesso al passo con i tempi, il numero 5, e tra i tavoli del nuovo bar ristrutturato, pieno di poltroncine di velluto e vetrine trasparenti, tutto un altro mondo rispetto al bar decadente della Cinecittà anni Novanta e primi Duemila, quando della “Hollywood sul Tevere” si aggiravano soltanto i fantasmi, tra buche, terra sconnessa e aria generale di sconforto. 


Oggi invece parlano i numeri, numeri a cui fanno da specchio le tante sale cinematografiche di nuovo piene, e non soltanto a Roma e Milano: nei tre anni post-pandemici, Cinecittà ha raggiunto quasi 100 milioni di euro di fatturato, di cui 40 solo con la costruzione di scenografie. Sempre nel post pandemia, sono arrivate a girare negli studios sulla Tuscolana oltre 50 produzioni televisive, con una percentuale di occupazione stabile dei teatri del 70-80 per cento, una media di duemila persone al giorno impiegate e una prospettiva, per il 2026, di crescita del 60 per cento della capacità produttiva. Sono passati in tanti, ultimamente, per quei vialetti. Tra gli altri: Anthony Hopkins, Angelina Jolie, Gabriele Mainetti, Saverio Costanzo, Daniel Craig, Pierfrancesco Favino, Charlize Theron, Denzel Washington, Salma Hayek, Marco Bellocchio, Luca Marinelli e Paola Cortellesi – che con il suo “C’è ancora domani” ha sbancato il box office tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024, ottenendo diciannove candidature ai David di Donatello.


Non ci sono però soltanto i numeri e i volti, per quanto incoraggianti siano i numeri e per quanto famosi siano i volti. C’è anche la preoccupazione. Preoccupazione di “non avere più un domani” e di sprecare il momento che sembrava d’oro, come hanno fatto notare il 5 aprile, riuniti al cinema Adriano di Roma, gli addetti del settore cinematografico (tutte le associazioni, dagli autori ai produttori ai distributori agli esercenti).

 

L’industria rischia di fermarsi sul più bello, questo il timore, motivo per cui si chiede di “rafforzare il dialogo con il governo”: “E’ necessario sbloccare tax credit, contributi selettivi e contributi automatici”, dicono gli addetti della filiera. “Fare chiarezza al più presto su risorse, regole e tempistiche”, è la richiesta di fronte ad alcuni segnali allarmanti: produzioni che si fermano o che si spostano all’estero, nonostante la filiera stessa sia composta da oltre novemila imprese che negli ultimi anni hanno generato un’occupazione diretta di oltre 65.000 persone e indiretta di 114.000 persone. In Europa, è il quarto mercato di riferimento, terzo per produttività dopo Germania e Francia. Non solo: la quota Italia al box office 2023 è stata del 24 per cento, seconda in Europa solo a quella della Francia; e tutti i festival internazionali maggiori hanno visto l’aumento nelle selezioni ufficiali del numero di titoli italiani.
I numeri e i volti, dunque, secondo questi dati, parlano di un’industria in espansione, e di un’industria con effetto moltiplicatore, come dimostra uno studio della Cassa depositi e prestiti del luglio 2023 (“Le sfide della filiera cineaudiovisiva italiana” di Andrea Montanino, Chief economist e direttore Strategie settoriali di Cdp): è come se ogni euro investito nella filiera ne portasse altri 3,54, inteso come impatto diretto, indiretto e indotto misurato in euro. Fuori dai numeri, serve ancora il colpo d’occhio, rispetto alle sale piene dopo l’ubriacatura casalinga e televisiva del biennio 2020-2022 e rispetto al turismo cinematografico di cui hanno parlato i quotidiani economici, a partire dal Sole 24 Ore e dal Wall Street Journal: sciami di cultori e curiosi si affollano per esempio nelle località siciliane (Taormina, Noto), che hanno fatto da sfondo alla seconda serie di “White Lotus”. Stessa cosa per le grotte di Posillipo, fino a qualche anno fa località napoletana conosciuta quasi solo a Napoli, ma oggi visitata a ripetizione e a pagamento da gruppi di turisti provenienti da tutta Europa (motivo: l’aver fatto da quinta teatrale naturale ad alcune scene chiave del film “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino). Per non dire del lago di Braies, gioiello dolomitico immortalato nella serie “A un passo dal cielo” per cui è stato introdotto il numero chiuso, vista l’affluenza. Cambiando paese, tempo e scenario, nel 2008 è successa una cosa simile in Grecia, nelle isole Sporadi, location del musical “Mamma mia!” e ancora oggi meta di gite in barca alle spiagge del film ed escursioni alla rupe dove sorge, a picco sul mare, la chiesetta dove Meryl Streep accetta infine la corte di Pierce Brosnan. 


Anche i luoghi parlano quindi di un’industria potenzialmente moltiplicatrice di pil, anche quando si parte da una difficoltà. La New Orleans del post uragano Katrina (2005), per esempio, grazie a un massiccio intervento di agevolazioni fiscali per il cinema, in alcuni casi fino al 40 per cento, ha attirato produzioni che a loro volta hanno contributo a rilanciare l’economia nei luoghi devastati dal disastro naturale. E nella Detroit colpita dalla crisi del settore automobilistico, un tax credit consistente, attorno al 30 per cento, oltre alle agevolazioni per vitto e alloggio per le troupe, ha favorito la ripresa locale, rendendo la ex capitale dell’auto una mecca per produzioni audiovisive. Non per niente oggi in Gran Bretagna si parla di portare il tax credit al 35 per cento. In Italia, la stessa Italia in cui, come si è detto, l’industria dell’audiovisivo vive una stagione di rinascita, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano vorrebbe rivedere lo strumento (per renderlo più efficiente, è stato detto al Mic, il ministero della Cultura). Ma il meccanismo è molto delicato, e, nelle sacche del cambiamento presunto e nell’incertezza del “come” si interverrà, alcune grandi produzioni hanno deciso di spostare altrove set inizialmente pensati in Italia: è il caso per esempio di “Maria”, biopic di Pablo Larraìn su Maria Callas (produzione Fremantle con Angelina Jolie come protagonista), girato in Ungheria, paese dove il tax credit, sulla carta simile a quello finora previsto in Italia, viene però “pagato” ogni tre mesi (e senza incertezza sul domani). Sempre in Ungheria è stato girato “Povere creature!”, film di Yorgos Lanthimos con una formidabile Emma Stone (Oscar come attrice protagonista). Nell’ottobre scorso, anche il Times aveva dato notizia dell’inquietudine dei produttori stranieri a proposito dell’incertezza sul tax credit in Italia e dell’intenzione di farlo scendere dal 40 al 30 per cento per le produzioni straniere che non assumessero un regista, uno sceneggiatore o un protagonista italiano. Diceva nell’ottobre scorso la sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni: “Quando in Italia arriva un attore, regista o sceneggiatore straniero gode di un credito di imposta del 40 per cento, ma in realtà paga il 30 per cento di tasse. Gli davamo indietro più di quello che pagava effettivamente. Il tax credit rimarrà al 40 per cento per i film internazionali in Italia solo se queste produzioni comprendono un attore, sceneggiatore o regista italiano. Altrimenti scenderà al 30. Un sistema di premialità per chi chiama sul set professionisti italiani”. Il discorso è stato in parte percepito come una sorta di impuntatura para-sovranistica, a cui si è aggiunta la scia di polemica sollevata alla Mostra del cinema di Venezia 2023 dalle dichiarazioni di Pierfrancesco Favino sul film “Ferrari” (perché non far interpretare Enzo Ferrari da un attore italiano? era il concetto), e la questione delle quote d’investimento obbligatorie nelle produzioni originali di produttori indipendenti italiani, da ampliare per le piattaforme di video on demand, sono state messe nel calderone delle opposte tifoserie. 


Fuori dal calderone, resta una certezza: si parla comunque di un “sistema cinema” (sistema industriale, appunto) ormai diventato globale. Si attende un intervento, ma si teme che il tempo bruci le opportunità. 


Dice il presidente di Anica Francesco Rutelli, citando una lettera inviata a questo giornale dal ministro Sangiuliano nel gennaio di quest’anno: “Non c’è contraddizione tra la spinta di  Sangiuliano a valorizzare contenuti italiani e la nostra capacità di crescere nella competizione internazionale. Proprio il riferimento del ministro, dato al Foglio, sulla ‘eccezione culturale’, richiama la scelta della Francia – motivo dell’esclusione della cultura dai trattati e le competenze Ue – a difesa del cinema nazionale, e dei conseguenti grandi investimenti pubblici, imparagonabili con quelli italiani. Non potremo recuperare il distacco dal modello francese. Ma non possiamo farci distanziare anche dai modelli (Spagna o Gran Bretagna) che tagliano le imposte per attirare investimenti nell’audiovisivo. Queste sono industrie, non settori cui erogare contributi o misure assistenziali: è dimostrato che ogni euro di investimenti in produzione ha un moltiplicatore di 3,5 euro; e l’impatto diretto sul turismo di film e serie, da solo, vale quasi l’intero Fondo cineaudiovisivo”. Il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi ha parlato di uno squilibrio di spese a favore del cinema, motivo per cui qualche giorno fa ha evocato una prossima “rimodulazione” dei finanziamenti pubblici.

  

“Quanto alle battute su qualche spesa eccessiva”, dice Rutelli, “tocca al Mic intervenire con controlli e, dove trovi abusi, sanzioni. E’ in ritardo, come per molti doveri amministrativi e burocratici che con totale collaborazione noi abbiamo continuamente segnalato al ministero. Ritardi preoccupanti, con conseguenze sui risultati per l’industria italiana nel 2024”. 
La preoccupazione è percepibile quando si interpellano i vertici delle varie filiere. Il presidente Unione produttori Anica Benedetto Habib evidenzia intanto la tenuta del settore cinema nelle sale dopo questi anni difficili: “Nonostante la sofferenza del biennio postpandemico, il 2023 è stato un anno importante di ripresa, e anche se lo sciopero degli sceneggiatori e attori negli Stati Uniti ha avuto i suoi effetti, vista la mancanza di titoli americani in questa stagione, possiamo dire che ci troviamo di fronte a un cambiamento di gusti nel pubblico, forse frutto della diversa fruizione su piattaforma negli anni del Covid. Nel post Covid, gli spettatori tornati in sala appaiono, in base alle scelte, più esigenti e consapevoli. Hanno avuto infatti successo duraturo al botteghino film d’autore come ‘Perfect Days’ di Wim Wenders, ‘Poor Things’ di Lanthimos, ‘Past Lives’ di Celine Song, e ovviamente il nostro ‘C’è ancora domani’ di Paola Cortellesi. Tutti titoli che attestano una mobilità del gusto rispetto al passato. Dovremo tenerne conto come produttori, sperando che la sala mantenga questa centralità riconquistata. Allo stesso tempo dobbiamo ricordare che il settore è appunto un’industria con importanti effetti sul pil nazionale e con grandi capacità di dare impiego. E se da un lato ringraziamo il ministero e la sottosegretaria Lucia Borgonzoni per aver avviato la discussione sul Tusma, il Testo unico dei servizi di media audiovisivi, e sull’obbligo per le piattaforme di investire in produzioni italiane, la cosiddetta ‘sottoquota cinema’, dall’altro auspichiamo che il rapporto tra cinema e industria vada nella direzione giusta, in particolare rispetto alla revisione del tax credit. Un conto è parlare di criteri più stringenti di accesso, perché non si consideri l’agevolazione fiscale come punto di partenza ma come complemento finale, altro conto è restare nell’incertezza”.

 
“I tempi lunghi per la ridefinizione del tax credit e l’assegnazione dei contributi che spettano ai produttori stanno danneggiando e indeboliscono soprattutto i piccoli produttori, abbiamo bisogni di certezze per pianificare il nostro lavoro”, dice Andrea Occhipinti, produttore e distributore con Lucky Red ed esercente con Circuito Cinema: “I produttori indipendenti vanno tutelati per poterli far crescere, altrimenti saranno fagocitati o avranno un ruolo passivo di meri produttori esecutivi per le televisioni o le piattaforme. Per poter fare ricerca, scoprire nuovi talenti, cercare nuove storie, dobbiamo poter gestire in modo autonomo i diritti televisivi delle nostre produzioni. Questa autonomia porterebbe anche a una maggiore varietà del prodotto, cosa utile all’intero comparto, vista anche la mutazione in corso nei gusti del pubblico nel post pandemia, in direzione di una scelta più sofisticata”. 


In attesa di un intervento governativo, l’Apai, Associazione del personale audiovisivo italiano, ha inviato una lettera al Mic per sollecitare un confronto, considerando un dato: “La diminuzione delle produzioni nel primo trimestre 2024 rispetto alle medie dei quattro anni precedenti, peraltro con previsioni non incoraggianti per i prossimi mesi”. Questa situazione, si legge nella lettera, “rischia di stravolgere gli equilibri di lavoro e occupazione del settore audiovisivo che con tanta fatica si erano ottenuti negli ultimi anni. La mancata apertura della finestra del tax credit sta causando un fermo preoccupante per molte produzioni nazionali ed internazionali sia cinematografiche che televisive, oltre che mettere in gravissima situazione economica molti produttori indipendenti. Tutto ciò, soprattutto, sta costringendo una grandissima parte di lavoratori dello spettacolo, soggetti a contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, a ricorrere alla richiesta dell’indennità di disoccupazione. Un costo non certo irrilevante per le casse dello stato”. 


Peccato, verrebbe da dire, visti i numeri di spettatori in sala. Davide Novelli, amministratore delegato di Cinetel, sottolinea il trend positivo: “Se si guardano i dati del 2023 e il confronto con le medie pre pandemiche, si vede un mercato crescere del 62 per cento rispetto al 2022 e portarsi a -16 per cento in termini di box office rispetto al triennio 2017-2019, drop finalmente in linea con gli altri paesi europei. Per quanto riguarda il 2024, la crescita continua e siamo al momento a +20 per cento in termini di incassi rispetto al 2023, unico paese europeo a essere in crescita rispetto all’anno precedente. In merito alle sale, lo scorso anno già 285 cinema in tutta Italia avevano registrato una performance superiore a quella della loro media 2017-2019. Quest’anno il confronto rispetto al 2023 è ancora più positivo, con ben 811 cinema che stanno performando meglio dello scorso anno”. Altra considerazione di Novelli, dati alla mano: “I primi mesi del 2023 risentivano ancora degli strascichi della pandemia e la ripresa del 2023 ha cominciato ad accelerare proprio dal mese di marzo; se confrontassimo i risultati di box office al 21 marzo con lo stesso triennio pre pandemico, vedremmo un drop di box office di nuovo a -32 per cento; questo fenomeno non avviene solo in Italia (che è anzi l’unico paese europeo a crescere rispetto al 2023) ma anche nel resto del mondo, per via dell’assenza di prodotto dovuta all’onda degli scioperi che hanno colpito l’industria cinematografica statunitense lo scorso anno e che si ripercuoto nell’offerta cinematografica attuale. L’Italia è riuscita a resistere a questa difficoltà meglio di altri paesi, grazie alle ottime performance dei film di qualità e dei cinema di città che più ne beneficiano. C’è grande resilienza e reattività del tessuto sale italiano alle difficoltà che continuano ad arrivare”.


Ma che cosa aveva scritto il ministro Sangiuliano a questo giornale, parole ora citate da chi, tra gli operatori dell’audiovisivo, vuol far arrivare al Mic il messaggio “fate in fretta, non perdiamo l’opportunità del momento”? “Più volte ho evidenziato”, scriveva il ministro nel gennaio scorso, “che non ha senso pensare a un’egemonia culturale della destra da sostituire a quella di sinistra. Stiamo dimostrando con i fatti – senza tirare in ballo questa volta la targa a Gramsci – che non ci sono casematte da assaltare. Ma c’è necessità, in ogni contesto, di garantire una cultura aperta e plurale senza censure e pregiudizi. Per evitare di cadere nella ‘grande truffa’, questa sì, del pensiero unico globale, l’unica egemonia che vogliamo creare è quella italiana, fatta di secoli di storia, arte, letteratura, musica e dei tanti contributi che l’Italia ha dato alla bellezza dell’umanità. Per conseguire questo risultato, stiamo lavorando alla costruzione di un nuovo immaginario positivo italiano nel mondo…”. E ancora, scriveva il ministro: “L’Italia è una superpotenza culturale, non tanto nell’accezione geopolitica del termine quanto piuttosto nel rappresentare un unicum nel mondo per i caratteri originali della sua storia...Lungi da me ogni spericolato tentativo di ‘cannibalismo culturale’, ciò a cui stiamo lavorando è il recupero delle numerose radici da cui si nutre, cresce e prospera rigogliosa la nostra nazione…”. 


Questo discorso può convivere con il concetto di mercato globale per l’industria del cinema e delle produzioni di serie televisive? Il timore è che il principio blocchi per così dire lo slancio. “I prodotti culturali italiani sono unici e hanno una potenzialità globale”, diceva in un’intervista alla Stampa il 21 febbraio scorso Andrea Scrosati, ceo europeo del gruppo Freemantle (la società che, tra le tante grandi produzioni messe in piedi in questi anni in giro per il mondo, ha conquistato il botteghino in Italia con il film della Cortellesi e ha vinto cinque Bafta e quattro Oscar con “Povere creature!” di Lanthimos). “Credo nel valore dei nostri scrittori, nell’originalità dei nostri sceneggiatori, e voglio dare il mio contributo per sostenerli e valorizzarli”, diceva Scrosati, raccontando di aver investito in cinque anni “quasi un miliardo di euro in Italia: le aziende del nostro gruppo hanno una squadra di mille dipendenti, mentre le nostre produzioni coinvolgono quasi 25 mila persone che sono la nostra famiglia allargata. Si tratta di un risultato che coinvolge l’Italia da nord a sud: dalla Napoli di ‘Un posto al sole’ e ‘L’amica geniale’ alla Milano di ‘X Factor’. Solo negli ultimi cinque anni i nostri programmi hanno coinvolto oltre 70 mila italiani… questo è il momento delle alleanze, il mercato è globale, la competizione è globale e per sostenere i nostri talenti serve una scala globale”. 


Non è la prima volta che il dibattito tra protezionismo e allargamento cultural-industriale si affaccia sulle scrivanie degli operatori del settore audiovisivo, specie attorno all’eterna questione: i nostri prodotti sono troppo di nicchia? Il botteghino, specie quest’anno, come si è visto, e anche il successo di alcune serie tv italiane, sembrano dare una risposta rassicurante: il prodotto funziona, perché chiudersi? E il dubbio che permane attorno alla ridefinizione prevista degli incentivi fiscali per il cinema fa oggi dire a molti produttori: guardate i dati, mollate l’ideologia, non lasciateci in questo indefinito. 


Se ne parlava già una decina di anni fa, prima del 2016 (governo Renzi), l’anno della cosiddetta legge Franceschini, dal nome dell’ex ministro della Cultura. Nel giugno del 2014 Dario Franceschini parlava di “grande e glorioso passato” del cinema italiano, ma anche di “un grande presente, come dimostrano l’Oscar a ‘La grande bellezza’ di Paolo Sorrentino e il Gran Prix di Cannes a ‘Le meraviglie’ di Matteo Garrone, e noi lavoreremo perché abbia anche un grande futuro”. Il ministro evocava allora il decreto sull’Art bonus (miglioramento del tax credit e incentivo alle produzioni estere per tornare a girare in Italia). Il pubblico, diceva Franceschini, “non si ritrae, ma si sposta dalle assegnazioni dirette a quelle indirette e con le agevolazioni fiscali”. Nel 2016, con il nuovo fondo da 400 milioni di euro, l’Italia potenziava l’investimento nel cinema. Nasceva il “Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e l’audiovisivo” per sostenere gli interventi per il cinema e l’audiovisivo attraverso incentivi fiscali e contributi automatici che unificavano le risorse del Fus Cinema e del tax credit. Otto anni dopo (governo Meloni), il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi dice: “Vengono prodotti tanti film con finanziamenti pubblici che nessuno vede. Uno di questi ha portato in sala 27 spettatori e ha ricevuto 2 milioni di finanziamento. Ora vogliamo finanziare il buon cinema”. Le dichiarazioni e le controdichiarazioni si affastellano, generando una confusione che in altri campi industriali verrebbe subito contestualizzata come altro dal business. Ma per l’audiovisivo sembra non valere questa regola non scritta, se non altro perché la materia che si maneggia è in qualche modo paradossalmente “immateriale”, pur coinvolgendo e prevedendo l’impiego di grandi capitali. Non è questione di colore politico, tifoseria e sovranismo, dicono gli operatori del settore. “Industria, industria, industria”, ripetono. Industria del sogno, del dramma, delle risate, dello svago, della riflessione, ma pur sempre industria. 


“A Cinecittà c’è il ‘Led volume stage’ più grande d’Europa”, dice un insider al cronista. Led volume stage, strumento che permette di girare un film in un set virtuale e dinamico. Le dimensioni parlano da sole: lunghezza di quasi cinquanta metri, larghezza di quasi trenta metri, altezza di lavoro di quasi dieci metri. Grazie alla combinazione di pannelli Led ad alta definizione (che avvolgono il palco), il set si fa estensione della scena reale o anche prova generale di come la scena reale potrebbe essere. E’ la nuova frontiera di un mercato globale in cui i protezionismi hanno poco senso, e non solo perché globale è il veicolo con cui viaggiano i sogni cine-televisivi. 

 

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.