Il Foglio Weekend
Dopo 40 anni il ragazzo di campagna Pozzetto è ancora felice a Milano
Un film di culto che è anche autobiografia immobiliare meneghina. Visto cento milioni di volte, oggi sta su Netflix. Colloquio con l'attore
“Il ragazzo di campagna” quarant’anni dopo è ancora lì. Le scene di quel film di Castellano e Pipolo del 1984 sono impresse nella memoria anche immobiliare di molti, come il monolocale senza finestre che oggi sembra anticipatorio della crisi degli alloggi a Milano, nella città degli influencer delle case e della Zampetti immobiliare. Artemio, il timido inurbato, che dopo molte peripezie cittadine torna a vivere nel borgo, è sempre lui, Renato Pozzetto. Come spiega il culto di quel film 40 anni dopo? “Credo che fosse perché era realistico pur essendo una fiaba”, dice oggi Pozzetto, sempre tenero ottantenne, al Foglio. “Gli interni claustrofobici col famoso ‘zona cottura taac’, ‘zona riposo taac’, furono ricostruiti in teatro, a Cinecittà. La cascina immaginaria era invece a Carbonara al Ticino, in provincia di Pavia”; luogo oggi di culto dove si celebrano gli anniversari della pellicola, con battute come “il treno è sempre il treno”, leggendarie, “e poi ci avevo aggiunto dei tocchi miei personali; l’osteria dove Artemio va a mangiare era una vera osteria, ci misi un avventore che diceva cose surreali come ‘che buona questo minestrone, non lo fanno così buono neanche a Santa Margherita ligure’", dice Pozzetto, con quel suo nonsense crepuscolare d’acqua dolce che lo ha fatto amare: è il nostro Bill Murray.
“Il film è stato visto cento milioni di volte, mi hanno riferito, quindi ogni italiano l’ha visto una volta e mezzo”, dice Pozzetto. Oggi la storia del bamboccione pasciuto dalla mamma in cascina sta pure su Netflix (sinossi: “A bored farmer moves to Milan in hopes of more excitement. But life and love in the big city may prove too much for a man this honest”). Non solo con “Il ragazzo di campagna” ma anche con “Un povero ricco”, e “Mani di fata” e altri film Pozzetto ha creato una controstoria di Milano, raccontando i poveri, le periferie, un’epica contrapposta a quella degli Yuppies e dei Vanzina (anche se con loro ha lavorato proficuamente così come col loro mitologico padre Steno).
Lui però a differenza di Artemio è rimasto a vivere a Milano e non è tornato a Carbonara al Ticino. Ma oggi è cambiato tutto, oggi forse la Maria Rosa, la sua spasimante brufolosa, avrebbe trovato una beauty routine risolutiva e farebbe lo smart working a Isola. A Milano Pozzetto è anche nato, anche se da piccolo la famiglia era sfollata a Gemonio, sul lago Maggiore. Per tornare a guerra finita. Quartiere “Baia del Re”, “che oggi si chiama Stadera, estrema periferia sud, all’epoca campagna”. Capolinea del tram 3. E’ la Milano del Dopoguerra, che si riprende dalle macerie ma scoppia di energie, con le cantine e i bar dove giovani come Pozzetto, il suo sodale Cochi Ponzoni, e il medico condotto Enzo Jannacci, fanno quella che oggi si chiamerebbe stand up comedy. “I giornali che Artemio mette sotto il maglione per ripararsi dal freddo noi li mettevamo davvero”, dice lui oggi. “Tutto partiva dai bar come il Gattullo, dove troneggiava il Dogui, Guido Nicheli, o le osterie come L’Oca d’oro", dove artisti, tiratardi, future star e dimenticati sbevazzoni celebravano l’arrivo del boom.
“Lucio Fontana ci diceva in milanese ‘voi due dovreste andare a Sanremo’. mentre tagliava le sue tele e prometteva quadri a chi lo aiutava (a pensarci oggi) mentre io e Cochi aiutavamo Piero Manzoni a stendere le sue famose linee. Manzoni poveretto era sempre un po’ ubriaco, entrava al bar e chiedeva una bottiglia di Campari e una di grappa, tutto per lui”. I bar e le osterie poi lasciano il posto al Derby, locale mitologico che “crea” il cabaret contemporaneo. “La gestione artistica era in capo a Jannacci che chiamò me e Cochi, Massimo Boldi, Felice Andreasi, Lino Toffolo, Bruno Lauzi. Finimmo in Rai, a Quelli della domenica, con pezzi ormai classici come La canzone intelligente”. Da lì parte tutto, anche una generazione di comici, e il cinema appunto dei Vanzina che consacra lo humor milanese. Se Zavattini a Roma consigliava di andare in tram, a Milano c’erano i bar completi di ufficio facce, “al bar Gattullo, dove il gruppo si riuniva e di chiunque entrava riusciva a stabilire vita morte e miracoli, solo dalla faccia appunto”.
Il Derby e i giovani Moratti che fanno amicizia con due picciotti della mala. La Rolls-Royce a rate e la Cinquecento col tettuccio apribile
Che poi ce ne sarebbero anche oggi di personaggi a Milano. Basterebbe fare l’ufficio facce in certi club dove un giorno qualunque vedi entrare Gianluca Vacchi che parcheggia la Rolls-Royce rivestita di velluto nero (!) sul marciapiede in via Palestro, vista l’altro giorno. “Ehhh… un po’ una cafonata”, fa Pozzetto, notoriamente appassionato d’auto. “A me piacevano le Rolls vecchie, quelle vere. La mia me l’hanno anche rubata ma poi forse impietositi me l’hanno restituita”. Aveva una Rolls? “Sì, comprata a rate, da Gian Marco Moratti, da ragazzo”. Di nuovo autobiografia milanese. “Modello Corniche, cabrio, bordeaux. Prezzo: diciotto milioni, che non avevo; mi disse: quando hai i soldi me li darai”. Ma prima c'era una Cinquecento, “uscivo con una modella così alta che le usciva la testa dal tettuccio”. “I ragazzi Moratti venivano a vedere i miei spettacoli al Derby. Perché erano i ricchi che andavano al cabaret nella Milano del boom. C’era un notaio che veniva su da Mantova e ci offriva da bere a tutti. Ma come, non avete lo champagne? E i ragazzi Agnelli che scendevano da Torino al Derby. Poi appunto i Moratti. Io sono ancora amico di Massimo. Facciamo delle tavolate, interisti contro milanisti, io milanista. Ma venivano pure i loro genitori, Angelo e la signora Erminia, che era famosa perché regalava a tutti sterline d’oro, e le regalava anche a me”. I giovani Moratti erano affascinati da Rudi ed Elia, muscolosa manovalanza della mala, due picciotti che però avevano anche una vena da entertainer: “mentre cantavano, strappavano le tende del locale e se le mettevano addosso, cantando Delenda Cartago”. E i morattini: “che simpatici quei ragazzi, invitiamoli da noi a cena”, “io cercavo di fargli capire che non era il caso”.
Il mistone di filibustieri, poveri, finti ricchi, ricchissimi “praticamente in mutande”, per dirla alla Pozzetto, nella Milano dell’epoca, è simile a quello di oggi, tra i Rolex e gli influencer. Altre facce: “C’era un mio amico proprietario di una fabbrica di porcellana, che aveva l’ufficietto dell’azienda in torre Velasca, e nel weekend facevano finta che fosse casa sua e ci portavamo le ragazze". Invece Pozzetto come primo lavoro fa il “venditore di canne fumarie, poi di ascensori” (dunque siamo nel “Vedovo”). “Vedevo i cantieri e andavo dai capimastri a propormi”. Tormentoni: il “taac” venne fuori osservando un modo di dire e di fare di un ragazzo assiduo del Derby. “Mentre raccontava le sue avventure, puntava il dito indice sul petto di chi lo stava ascoltando. pronunciando un ‘Taac!’ conclusivo per dare un tocco personale alla narrazione. Si chiamava Mario Valera, abitava in periferia, in fondo a via Novara, oltre lo stadio di San Siro. Sua madre aveva una tintoria. Lui si faceva chiamare Mario Tronchetti Valera, era spiritoso”.
Altri tormentoni, come la “supercazzola” che poi finirà in “Amici miei” in bocca a Tognazzi-conte Mascetti. “Tarapia tapioco”, “come se fosse antani”, era una invenzione di Corrado Lojacono, professione cantante, specializzato in scherzi telefonici con quel modo di parlare che intorterebbe chiunque. “A Natale regalava agli amici delle cassette registrate con dentro una quantità di scherzi , ideati per prendere in giro ristoratori, negozianti, segretarie. Telefonava spacciandosi per un imprenditore, per un vecchio cliente, e con quel linguaggio metà comprensibile ma insensato la tirava in lungo: “Buongiorno, sono Attardi... ricorda? “Siamo un’azienda specializzata in promontore: “Aincavi, aggettanti, ha presente no?”.
“La nostra città allora era come un teatro immenso, ricchissimo di spunti. Ascoltavi storie interessanti, curiose, romantiche, strambe ogni minuto. Tutto questo in mezzo a gente che voleva integrarsi, che faticava, che a furia di farsi il mazzo ce la faceva”, scrive Pozzetto in “Ne uccide più la gola che la sciarpa”, il suo libro di memorie appena uscito da Rizzoli. Che significa il titolo? “Ma nulla, è un nonsense”. Era una Milano che cresceva, anche urbanisticamente, “e a me son sempre piaciute le case, sono geometra e mio fratello era immobiliarista”. Il mattone è sempre protagonista, anche nel suo cinema, da “Mani di fata”, di Steno, in cui fa il maggiordomo per finanziarsi il suo progetto di casa mobile, all’episodio della sigaretta in “Di che segno sei”; in cui è un magutt di Gemonio, il suo paese, con un cumenda palazzinaro dotato di fascinosa amante tabagista, Giovanna Ralli, e lui sogna invece di affrancarsi aprendo una tabaccheria. “Ah, sì”, fa Pozzetto. “Gesù, Giuseppe, Maria, fammi aprire una tabaccheria, era la sua preghiera. Gemonio è lo stesso paese del Bossi. A un certo punto girava voce che anche io fossi leghista, perché ogni tanto ci incontravamo, con l’Umberto. Lui andava a comprare i sigari al bar tabacchi, io le sigarette. Ma prima ci avevo parlato tornando in aereo da Roma”. E lo era, lei, leghista? “Mai”. “All’epoca ero di sinistra; chi non lo era, oggi non so. A. un certo punto l’amico Bruno Lauzi mi chiese di candidarmi coi repubblicani, a Pavia, io non avevo nessuna voglia ma presi lo stesso un sacco di voti, anche se non fui eletto”. Berlusconi lo frequentava? “No”.
Oggi il lago di Como è molto ambito da star e influencer ma il Maggiore non ha il suo George Clooney. “Ma quel lago è sempre stato più chic, c’erano le grandi famiglie milanesi, come i Pirelli, perché è attaccato alla Brianza. Da noi sul lago Maggiore ci sono più leccatori di gelati. Anche se Laveno, diciamolo, è la Portofino del Verbano!”. Roma le piace? “Molto, ci ho vissuto tanto, per il cinema, ci stavo tutta la settimana ma a mia moglie non piaceva. Non son mai riuscito a convincerla a venire a vivere lì. Avevo comprato anche una bella casa con vista sul Colosseo, che ho ancora, ma lei non ci veniva mai”. Pozzetto ha fatto tantissimi film, settanta in totale, ma all’epoca, un turbine: dieci solo tra il ‘75 e il ‘76, quando esplode col suo primo, “Per sposare Ofelia”, che lo porta a vincere il Nastro d’argento come miglior attore esordiente. Aveva studiato recitazione? “Ma no, macchè”, ride Pozzetto. “Il cabaret era la nostra scuola. Il Derby era una vera factory, stavamo sempre tutti insieme e anche il pubblico ti suggeriva le battute”. L’ultimo film girato è “Lei mi parla ancora”, quello in cui fa il papà di Vittorio Sgarbi diretto da Pupi Avati, ma come in un film di Pozzetto, avvengono eventi di squinternata complicazione. “Arrivo a Fiumicino e mi viene a prendere un autista che non mi trova, perché mi aspetta alle partenze invece che agli arrivi; poi sbaglia strada, si perde, insomma scendo e prendo un taxi. L’ho detto a Pupi Avati, ma è saltato fuori che l’autista è un suo parente, e si è risentito”.
La recensione-pagella di Moana e la celebre scena in “La patata bollente” con Edwige Fenech. La vita romana e una casa al Colosseo
Della “vita romana” come la chiama Pozzetto fece parte anche Moana Pozzi, che lo inserirà nel suo famoso diario-classifica degli amatori. Ecco la pagella-recensione. “Pozzetto (Renato): E’ divertente come i personaggi dei suoi film e con lui andavo sempre a feste dove si potevano incontrare ‘tutti’. Spesso veniva con noi un suo amico produttore, Achille Manzotti, un milanese dal comportamento cafone ma simpatico. Facevamo tardi e aspettavamo l’alba nell’hotel Lord Byron ridendo e giocando a mimare i titoli dei film. Renato era così spiritoso che malgrado fisicamente non fosse il massimo aveva un non so che di erotico. Voto 6+”. “Ma no, non mi ricordo”; si schermisce Pozzetto. “In tanti facevano a gara per finire in quel libro anche se non erano mai stati con Moana". Altra performance quella in “La Patata bollente”, 1979, sempre di Steno, con la famosa scena del bagno di schiuma, in cui Pozzetto è immerso in vasca con Edwige Fenech, icona sexy dell’Italia di quegli anni, e l’icona a un certo punto si alza e Pozzetto rimane lì col coso in vista, rimpicciolito d’ufficio - “per non eccitarmi pensavo a Bruno Vespa” - e un elettricista romanamente sentenzia: “A Pozzé, ve pagheranno proprio bene ma fate ‘na vitaccia”.
In elicottero da Celentano. “Nei suoi film il copione è sempre lo stesso, c’è una donna bellissima – a volte due – che si innamorano di lui”
Al cinema e al mondo romano Pozzetto si accosta senza sacri fuochi ma con attitudine lombarda, di malinconico realismo: “è un ambiente difficile, spietato, a me è andata molto bene perché nella vita ho avuto un culo della madonna, ma ho visto tanti fare una brutta fine”. Incontri-scontri: Alberto Sordi, con Pozzetto – all’apice della gloria – che lo incontra in un salotto e da grande fan scatta in piedi. Sordi lo gela: “ma te sei Cochi o sei Renato?”. Tognazzi amaro: “siete quelli che son venuti a romperci i coglioni”, “perché eravamo la nuova generazione”. Nino Manfredi che “non amava che io cambiassi le mie battute della sceneggiatura. Per favore, diceva, avvertimi prima”. Celentano, altro cantore della Milano del boom? “Mah… cosa le devo dire. Era sempre un po’ fissato con se stesso. Nelle sue sceneggiature c’era sempre almeno una donna bellissima che era innamorata di lui, a volte due. La storia era sempre uguale: la donna prima non si innamora e poi si innamora perdutamente di lui che fa il burbero. Ci teneva molto a risultare seducente”. Vi frequentavate? “No. Una volta andai a casa sua in Brianza in elicottero, che è una mia passione, e atterrai nel suo giardino, e lui era tutto seccato perché temeva che fossero dei rapitori”. Un altro elicottero veniva a prendere Dalila Di Lazzaro sul set di “Io Serafina”, era l’Avvocato Agnelli. Elicotteri, barche, auto, moto, Pozzetto è sempre stato appassionato di motori. Per un po’ aveva una barca che si chiamava “Nebbia in Val Padana”, e ci faceva delle traversate nel Po fino a Chioggia. Oppure alla Maddalena, acqua salata. “Ero stato nei vari Porto Cervo e Porto Rotondo ma c’era un casino di gente. E poi tutti prendevano la barca per andare a fare il bagno alla Maddalena, allora tanto valeva”.
La delicatezza lacustre di Pozzetto l’ha portato anche navigare molto decorosamente in territori scivolosi; in un cinema di cassetta che non ambiva al Sundance festival, lui però è sempre riuscito con la sua surreale malinconia a non essere mai volgare, anzi molto moderno. Ecco di nuovo “La patata bollente”. Bernardo Mambelli è un operaio milanese con la passione per il pugilato. E’ soprannominato “il Gandi”, milita nel Pci, e in una sera di tregenda ricovera a casa l’omosessuale Claudio (Massimo Ranieri) picchiato dai fascisti. Di lì, una serie di equivoci porteranno il partito e la fidanzata (Edwige Fenech) a credere che il Gandi sia diventato gay; cosa che non piace per niente ai comunisti, il Gandi viene dunque spedito in Unione sovietica per essere rieducato; di ritorno, siccome gli rompono ancora le scatole, si butta in un “tango diverso” con Ranieri alla Festa dell’Unità. Pellicola coraggiosa per l’epoca. “Avevo voluto io molto fortemente che il personaggio gay non fosse una macchietta”, dice oggi Pozzetto, “mi sembrava giusto che fosse così. Ne parlai con Massimo Ranieri e anche lui fu d’accordo”. “Un tango diverso” fu composto appositamente da Totò Savio, leader degli Squallor, e diventò poi inno ufficiale del Pride nazionale a Bologna nel 2008 (“Chiudi gli occhi se vuoi / questo è un tango diverso / balla meglio che puoi è un tantino perverso / tango languido e sia contro l’ipocrisia / dare scandalo è l’unica via”). Poi ci sarà un altro tango pozzettiano: quello delle capinere, ballato da Pozzetto e Leopoldo Mastelloni in “Culo e camicia” (1981). Il tango delle Capinere era invece opera di Cesare Andrea Bixio, nipote del patriota Nino, oggi il Timothée Chalamet del pantheon sovranista.
Ma Cochi lo vede ancora? “No”. Avete litigato? “No, diversità di vedute”. Oggi il nostro ragazzo di campagna sogna un remake di quel glorioso film però ambientato nella Milano dei grattacieli. Si intitola “Una mucca in Paradiso” il trattamento che ha scritto, “pensando al Bosco Verticale del mio amico Stefano Boeri”. La storia: “Artemio, che vive bello tranquillo nella sua cascina a Carbonara al Ticino, si ritrova senzatetto, perché la cascina è andata a fuoco e finisce ospite di una signora che abita proprio nel Bosco verticale di Boeri. Però si porta con sé l’amata mucca Renata”. Fuori c’è la Milano di oggi. Chissà Artemio come si troverebbe, con la sua mucca, tra le Rolls-Royce dei Vacchi e i Ferragnez ormai decaduti. Nella Milano che è sempre grande, coi monolocali che son sempre piccoli.