Un fotogramma del trailer di Civil War

Il formidabile lavoro di Alex Garland

"Civil war", il film che lascia senza parole perché ha detto tutto

Marianna Rizzini

Vita, morte, ambizione, compassione, ambiguità, crescita, involuzione. Una pellicola impressionante che racconta quell’umanità perduta che si incontra lungo il feroce viaggio intrapreso dai quattro protagonisti di questa tragedia-commedia umana on the road

Partendo dalla fine, l’effetto che fa il film è parte integrante del film. Dalla visione di “Civil war” di Alex Garland, infatti, si esce pietrificati (in senso positivo: attenti all’estremo), disorientati, concentrati. E l’impressione è che non sia una cosa soggettiva, di questo o di quello spettatore. Dal primo all’ultimo fotogramma il silenzio davanti allo schermo è totale: nessun cellulare dimenticato acceso, nessun fruscio per trovare qualcosa nella borsa, nessun sussurro all’amico, nessuno che si alza. Qualsiasi rumore di fondo sparisce di fronte a un film da cui sono sparite a monte tutte le cose non necessarie a una narrazione scarna, implacabile, senza retorica, senza lezioni morali, senza consolazione, senza bontà che non abbia anche un suo tornaconto, come spesso accade nel mondo reale, e senza cattiveria che non sia il prodotto ineluttabile della discesa in un gorgo in cui chiunque potrebbe cadere, se non vigila su se stesso per tenere accesa la luce della coscienza, della libera scelta, dell’introspezione, della consapevolezza. E alla fine allo spettatore manca la parola perché questo film dice tutto e lo dice senza fronzoli: vita, morte, ambizione, compassione, ambiguità, crescita, involuzione, competizione, amore, dolore, trasformazione e caduta, leadership e tendenza gregaria. Senza spiegare, senza giustificare, senza salvare.
 

È un film impressionante nella formidabile capacità di mostrare per sottrazione e non per ridondanza. E quindi non per le scene dure – e belle – di guerriglia urbana e non; non per la violenza arbitraria, carsica, strisciante che pervade le città allucinate di un’America (ma potrebbe essere qualsiasi luogo) trasfigurata nella versione di poco futura rispetto a un oggi dalle potenzialità distopiche. Ma non è distopico, in realtà, quello che vediamo. Potrebbe essere già qui, e forse lo è già in varie forme, quell’umanità perduta o regredita che si incontra lungo il feroce viaggio intrapreso dai quattro protagonisti: due reporter esperti, una reporter alle prime armi disposta a tutto senza quasi rendersene conto, un anziano reporter non disposto a tutto nel senso migliore del termine. Sono loro i testimoni di una tragedia-commedia umana che è sì “on the road” – il post-apocalittico romanzo “Sulla strada” di Cormack McCarthy potrebbe essere stato ispiratore nell’atmosfera, ma, a seconda dell’occhio di chi guarda, potrebbero esserlo stati anche i fratelli Coen o Stanley Kubrick o gli scenari da fiaba ostile di Tim Burton. Non ha importanza, quello che è “sulla strada” è anche profondamente interiore, tanto è filtrato sempre e comunque dall’occhio digitale – telecamera, macchina fotografica, cellulare. Un organo vero quanto un occhio reale, più vero dello sguardo sbarrato delle vittime buttate tra gli stracci, macabra copia di un’opera di Pistoletto, e più del ghigno dei carnefici abituati alla carne da roulette russa. Ma chi è il vero carnefice? ci si domanda man man che dilaga, centellinata a ogni pompa di benzina persa nel nulla, la guerra civile del titolo. Che è soltanto un assunto, un’informazione di servizio: ci sono gli stati separatisti di California e Texas e c’è un esercito di lealisti che difende un presidente-ectoplasma braccato in quel di Washington. Chi ha ragione e chi ha torto non si sa e non conta.
 

La risposta non c’è, tutti sono colpevoli e innocenti a modo loro, tanto che la guerra civile potrebbe anche non esistere, e quell’umanità forse sarebbe così comunque. Così può diventare, l’umanità, se non vigila su se stessa in ogni minuto di ogni singola vita, ognuna diversa ma ugualmente capace di precipitare nel proprio piccolo o grande inferno. L’unica cosa che resta (o che importa) ai quattro protagonisti è scappare, scappare anche da se stessi, e scattare la foto che permette di credere almeno alla propria esistenza. Ma l’unica cosa che resta a chi guarda non è quella, e una via di uscita forse c’è. Il film non dice, indica, e a forza di sottrarre ti ci fa sbattere la testa.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.