L'editoriale dell'elefantino
Inquisizione a Cannes: al patibolo c'è il capolavoro "Ultimo tango a Parigi"
Alla kermesse francese del cinema, ovvero il festival del #moiaussi, cioè il #metoo francese, un documento filmato propone il dramma di Maria Schneider e la sua condizione di "vittima di un cinema per maschi" come l’alfa e l’omega dell’opera di Bernardo Bertolucci
L’accademia della critica americana giudicò “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci come un capolavoro sentimentale. E tale era. Un tratto condiviso con “La vita è bella” di Benigni, sentimentale anche quello ma edificante, rappresentazione infantile della memoria esaurita, e quanto esaurita lo si vede oggi, della Shoah. L’erotismo del sesso anale con lubrificante, un particolare girato apposta con la tecnica usuale dell’improvvisazione e della spontaneità, distanziava il porno per l’incombere della morte, del sospetto d’amore, della casualità anonima del sesso nichilista intrecciata con i cuori che pulsano e scoppiano in un appartamento scenico con le facce e i corpi di Marlon Brando e Maria Schneider, con la loro recitazione mimetica del possesso e del desiderio a porte rigorosamente chiuse, nel vuoto spaziale di un luogo da affittare. Il film fece ovviamente cassetta, si piazzò nel mondo subito dopo gli incassi del “Padrino” e appunto con l’Auschwitz allegra e favolistica di Benigni, il suo opposto sentimentale, si contende il primato italiano degli incassi di tutti i tempi.
Fu censurato, sequestrato, processato con condanne alla galera per i protagonisti e per il regista, fu letteralmente messo al rogo in un clima da inquisizione e con un linguaggio da Inquisizione spagnola. Ne furono salvate due copie come corpi del reato. Poi fu riabilitato: si era passati dal demoniaco degli anni Settanta in cui il Tango era stato ballato al consumo opulento e libertario degli anni Ottanta. Dopodiché fu giudicato, anche enfatizzando suoi meriti, un capolavoro della storia del cinema, caddero sia il giudizio accorto e corrivo di sentimentalismo, che è sempre ambiguo per un’opera poetica, sia quello di corruttela dei costumi.
Ora a Cannes, festival del #moiaussi, cioè il #metoo francese, un documento filmato propone il dramma di Maria Schneider e la sua condizione di “vittima di un cinema per maschi” come l’alfa e l’omega dell’opera di Bertolucci. Così s’invera la coincidenza valoriale tra l’Inquisizione spagnola e il tribunale progressista che decreta la fine del sentimentalismo e del sesso oscuro per realizzare una cancellazione culturale identica al rogo d’antan, salvo che per essere promossa in nome della vittima e non dell’innocenza presunta del pubblico. Vittime della vita lo siamo tutti, chi più chi meno, eppure Maria Schneider, come l’altrettanto bella e tenebrosa Tina Aumont, furono figlie d’arte, maschere meravigliose e dannate del maledettismo cinematografico, attrici e volti capaci di incarnazione. Maschere, appunto.
Che poi la vita renda triste sé stessa, oltre la maschera, è un elemento del tragico possibile, ma non fa coincidere la vittima e la sua espressione in uno spartito cinematografico, in una rappresentazione. La nuova inquisitoria censura postuma di Bertolucci e del suo film, tanto esemplare da aver subìto anche famose parodie di un tempo (Franchi e Ingrassia, “Ultimo tango a Zagarol”) in cui tra l’altro non era vietato ridere, anche dello scabroso, realizza in pieno e definitivamente il fondo limaccioso e moralizzatore della censura parruccona, mette la parrucca anche alle pretese di modernità femminista, “femminista”, di una sconclusionata confusione tra opera e vita ispirata all’ideologia di genere e al correttismo filmico.