La recensione

A Cannes, la post-apocalisse di "Furiosa". Ma manca l'effetto sorpresa

Quasi dieci anni dopo l'uscita di "Mad Max: Fury Road" il nuovo film racconta la storia della futura regina con un braccio e un moncherino che nel primo film cercava di mettere in salvo un po' di ragazze incinte

Mariarosa Mancuso

Lo abbiamo aspettato troppo? “Mad Max: Fury Road” diede una bella scossa al Festival di Cannes del 2015: nessuno lo aspettava – i primi film erano dei novecenteschi anni 80 – e l’australiano George Miller, classe 1945, per fantasia e energia era sembrato il più giovane tra i registi del festival. Certo, l’evento era nel titolo. Ma poteva finire come un “Godzilla” qualunque: l’imbarazzante film di chiusura sulla Croisette tanti anni fa, pure diretto da Roland Emmerich.
 

Quasi dieci anni dopo manca l’effetto sorpresa. Sappiamo che “Furiosa: A Mad Max Saga” (superata l’irritazione per la parola “saga”) racconta la storia della futura regina con un braccio e un moncherino che nel primo film cercava di mettere in salvo un po’ di ragazze incinte. Il primo segno di catastrofe è infatti la mancanza di progenie, preludio alla totale infertilità (nei “Figli degli uomini”, che Alfonso Cuarón ha tratto dal romanzo di P. D. James, c’è una sola donna incinta in tutta l’Inghilterra, un’immigrata clandestina).
 

La piccola Furiosa viene rapita da brutti ceffi in motocicletta, agli ordini del signore della guerra Dementus (sic). Prima viveva con la madre tra verdi prati e alberi da frutta. Tutto il resto è deserto, pittoresco da lontano ma del tutto inospitale per gli umani. Meno male che c’è il petrolio, al grado zero: buono per alimentare qualche vecchia carretta rimasta, ricomposta come capita, e la luccicante cisterna con rimorchio (non chiedete perché non si impolvera, non sono domande da fare a un film post-apocalittico: la polvere sta dove il regista vuole).
 

Furiosa è sveglia, combattiva, cocciuta. Si annota la strada di casa su un braccio, e non ha altri modi per arrivarci che affidarsi al pilota dell’autocisterna, pure lui stanco di guerra. Gli inseguimenti sono spettacolari, manca però il manierismo pop che c’era in “Fury Road”. Scomparsa anche l’ironia, sarà colpa delle guerre vere scoppiate nel frattempo. Dalla Danimarca arriva l’altro titolo in concorso, assai diverso per potenza di fuoco come spesso succede ai festival: “La ragazza con lo spillone”, regista Magnus von Horne. Per essere più precisi: un ferro da calza con cui un’operaia messa incinta dal padrone cerca di abortire, negli anni dieci del Novecento. Lui avrebbe promesso di sposarla, la tremenda mamma esige la purezza del casato
 

Da adesso in poi, aggiungete “tremendo” a tutto, tale è il dramma che vedremo. Il marito dell’operaia torna dalla guerra sfigurato, sotto la protesi gli manca mezza mascella. Incappa in una donna che traffica in bambini: si fa pagare dalle madri per liberarle dal peso, e dalle coppie che li adotteranno, almeno così dice. Bianco e nero, illuminazione da cinema muto, miseria sporcizia e cattivi da Londra dickensiana. La lista dei dieci molestatori che incombe su Cannes ancora non è uscita. Abbiamo però la prima vittima: del femminismo ma soprattutto della voglia di qualificarsi come “anime belle”. A Radio France Inter, Vincent Lindon interrogato sul #MoiAussi (qui traducono tutto) e sul suo futuro impegno personale in materia ha risposto: “Voglio essere d’aiuto alla vostra causa, ma non so come: aiutatemi a aiutare”.
 

Sperava in un caloroso applauso. Invece oggi due giornaliste di Libération lo bacchettano. “Legga qualche libro, non basta dichiarare che il #MeToo è cosa buona e giusta. Non possiamo assegnare noi i compiti a casa. Sappia che finora ha goduto, e godrà, di molti privilegi. I soldi, per esempio: potrebbe rifiutare di recitare in film dove le attrici sono pagate meno di lui. Potrebbe spezzare la catena di solidarietà tra maschi, rompendo con i molestatori e testimoniando contro di loro”.

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