sentimental blockbuster
Siamo tutti stati Forrest Gump nella nostra vita
Trent’anni fa arrivava nelle sale il film di Zemeckis, un successo globale a dispetto della critica. Molta America, molte chiavi di lettura, molti motivi per ritrovare nella vita reale qualcosa del tipo incarnato da Tom Hanks
Interrogato sui grandi bluff della storia del cinema, ChatGPT lo infila al terzo posto dopo “Titanic” e “Avatar”. Anche per i cinefili più agguerriti è uno dei film più sopravvalutati di sempre: scialbo, infantile, una versione “baby boomer” di una qualsiasi favoletta Disney. In tanti però versano una lacrimuccia a ogni passaggio televisivo, e su Netflix è uno dei titoli con più like. “Forrest Gump” usciva il 6 luglio del ‘94, e da trent’anni non ha mai smesso di essere qualsiasi cosa ci si voglia vedere dentro: un’esaltazione dei “veri valori americani”, un manifesto del populismo, una metafora del cittadino scemo e obbediente caro a ogni potere, una bandiera del “buonismo” prima maniera, quello che da noi s’intestò Veltroni.
E poi ancora una seduta di autocoscienza collettiva su un bel pezzo di storia americana, ma anche una riflessione sul caso, il destino, la serendipity, con quella piuma dei titoli di testa che volteggia in aria e alla fine si posa ai piedi delle Nike di Forrest Gump. Un film che chiude i conti coi fantasmi del Vietnam, un’apologia della vecchia America razzista, persino una metafora della “new economy” di Bill Clinton, qualsiasi cosa volesse dire all’epoca. “Forrest Gump” era un film liberal e progressista, ma anche di destra, anzi della destra radicale, come scrisse il Washington Post (“un’occasione per costruirsi falsi ricordi, per salvare il nostro ego maltratto, facendolo sprofondare in una nostalgia che assomiglia a un sonno morale”). “Forrest Gump” nel pantheon dei democratici ma anche dei MAGA. Ancor oggi c’è un po’ di “Forrest Gump” in quel Biden sempre fuori-posto che si guarda intorno disorientato. C’è tanto “Forrest Gump” anche in Trump (e naturalmente una pagina “Forrest Trump” su Instagram), catapultato anche lui un po’ per caso e con traiettorie imprevedibili sul palcoscenico della Storia, anche se dalla parte sbagliata. Al processo per i fatti di Capitol Hill, l’avvocato di Jake Angeli, indimenticabile “sciamano” del golpetto dei Trump Boys, ha detto che il suo assistito era andato in Campidoglio “come Forrest Gump”, costruendo quindi la difesa su un atto di pura e disinteressata obbedienza agli eventi, come un bravo ragazzo americano qualsiasi. Solo che c’era andato a torso nudo, con un cappello di bisonte in testa, l’occhio da matto e la faccia dipinta di blu.
Nel 1994, il film di Zemeckis era il sentimental-blockbuster che macinava miliardi in ogni paese. L’evento di una stagione cinematografica che pure aveva grandi titoli: “Pulp Fiction”, “Il Re leone”, “Le ali della libertà”, “Il corvo”, “Intervista col vampiro”, “Il postino”, “Ed Wood”, “Natural Born Killers” (oggi ci si strugge per un “Barbie” ogni tanto, ma all’epoca averne così tanti tutti insieme era normale). Impossibile sfuggire al fenomeno. L’immagine di Tom Hanks, di spalle, seduto su quella iconica panchina, con la valigia a terra, era ovunque. La “gumpmania” travolgeva tutto. Il film si prolungava in una miniera di gadget, cappellini, scatole di cioccolatini col faccione di Forrest, e poi il “running kit” per correre senza meta, con tanto di barbone posticcio, la catena di ristoranti “Bubba Gump” coi gamberetti in tutte le salse, la colonna sonora coi Doors, Elvis, i Beach Boys, Simon & Garfunkel, come un karaoke generazionale o un “Techetechetè” americano. Tutti prendevano la parola. Tutti volevano dire la loro su “Forrest Gump”. Grandi discussioni anche sugli incerti confini tra stupidità e bontà e ingenuità, quando ancora non si diceva “normodotato” e scomodando casomai tutti gli “idiot savant” della letteratura. Uscì un libro, subito a ruba, “Gumpism: lo spirito e la saggezza di Forrest Gump”, di P.J. O’Rourke: “Gump è il perfetto cittadino della società moderna, un perfetto idiota”. Da noi si scomodava “La prevalenza del cretino” di Fruttero e Lucentini. “Lo scemo del Villaggio Globale”, come si chiamava Internet prima di Internet, “è oggi pronto a scalare i vertici della società”, scrivevano un po’ tutti. “Nessuno sorpresa”, diceva Tom Hanks”, “ci soni tanti miliardari che non hanno nulla nel cervello”. Altro assist con l’attualità.
Il “Forrest Gump italiano” era “Ivo il tardivo”, di Alessandro Benvenuti che oggi non si ricorda nessuno (la versione “provincia toscana” dell’eroe di Zemeckis). Ma più che al cinema, dove era impossibile competere, il “Forrest Gump italiano” si cercava nella politica, l’unico star system che abbiamo. Tra i primi candidati, il ministro della Famiglia del primo governo Berlusconi, Antonio Guidi, “depositario di tutti valori positivi dell’eroe del film”, secondo il Corriere. E poi Romano Prodi, che rivendicava il diritto ad avere “un’anima tenera”, quindi identificato subito come l’uomo giusto per sconfiggere Berlusconi e traghettare i comunisti “dal marxismo al tenerismo”. Lo battezzava Luciano Lama: “Prodi è un po’ fanciullone, un po’ Forrest Gump”, specificando però che la sua lettura del film di Zemeckis era in controtendenza rispetto alla critica (“sul film ho un parere un po’ diverso, ne abbiamo parlato parecchio in famiglia”). Per l’ex capo della Cgil, Forrest Gump era “uno che alla fine sa quello che vuole, non vince per combinazione, il suo successo non è casuale, e anche per questo Prodi può essere l’uomo giusto”. Da lì in poi, tutto un “Forrest Gump italiano”, scomodando di volta in volta un certo candore, l’improvvisa capacità di fare proseliti, l’abilità nella corsa e nella fuga. E quindi Matteo Renzi in versione runner, “arrivo, arrivo!”; Di Maio, anche per una certa somiglianza per via della zazzera scalata, Beppe Grillo, naturalmente, ma più di tutti Giuseppe Conte, nato in politica, sballottato qui e là dal caso, sempre al posto giusto, al momento giusto: un personaggio di gomma, indistruttibile, “trasportato in giro come da una brezza”, direbbe Forrest Gump.
Di fronte a un successo che all’epoca fu davvero incredibile, c’era come sempre anche un po’ di apprensione intellettuale per le sorti del pubblico. Invitata nella giuria di Cannes, il premio Nobel Nadine Gordimer spiegava che aveva accettato l’incarico perché indignata da “Forrest Gump”, il “simbolo di una civiltà americana stanca e racchiusa nel sentimentalismo”. Bisognava fare qualcosa. Solo da Cannes potevano venire risposte concrete, e quindi film, performance, gesti artistici capaci di smarcarsi da tutta quella falsità imperialista. Al di là del successo, è facile capire cosa infastidiva: la lacrima facile, la Storia riletta come una favoletta, e poi quei miti e feticci della controcultura anni Sessanta messi in cattiva luce o perculati, come nella scena al Lincoln Memorial, quando Forrest e Jenny si ritrovano per caso a un raduno pacifista e corrono e si abbracciano a mollo nella “reflecting pool” mentre gli hippie applaudono commossi, come nel finale di “Ufficiale e gentiluomo” o in un “Pretty Woman” qualsiasi. E poi la furbacchiata di Zemeckis di far saltare il microfono quando Forrest Gump sale sul palco, dice la sua sul Vietnam, ma non sapremo mai cos’ha detto. Vediamo solo il capellone à la “Easy Rider” che lo abbraccia e gli fa “amico hai detto tutto…”, vai a capire. Però per quanto sentimentale e prevedibile potesse essere, “Forrest Gump” non era un successo scontato (i successi scontati non esistono, tantomeno quelli “costruiti a tavolino”, ci fosse un tavolino dove si pianificano gli incassi faremmo tutti i produttori). Anzi, a un certo punto non lo voleva produrre nessuno. Arrivò in sala così come lo vediamo solo perché Zemeckis e Tom Hanks si incaponirono e ci misero tanti soldi di tasca loro, secondo il mantra che manda avanti tutte le imprese: se ci credi, investici sopra (ogni riferimento a fatti o persone del cinema italiano di interesse culturale è puramente casuale). La sceneggiatura, tratta dal romanzo di Winston Groom, circolava a Hollywood da un bel po’. Però non funzionava. I guri degli Studios dicevano che il romanzo era bello, ma troppo incasinato per il cinema. Tirarne fuori un film era impossibile. Ci provò per prima la Warner. Furono stesi vari trattamenti. Ma nel frattempo al cinema era arrivato “Rain Man”. Dustin Hoffman vinceva l’Oscar, applausi della critica, incassi pazzeschi. Gli executives non avevano dubbi: un film con un ritardato subito dopo un autistico è troppo rischioso. Il progetto fu accantonato. Dopo un paio d’anni se lo ricomprò la Paramount, e qui inizia un’altra storia. Ingaggiato per la sceneggiatura, Eric Roth stravolge il libro di Groom. Via molti capitoli, via il cinismo, quindi cambio di tono, di registro, e al centro la storia d’amore tra Forrest e Jenny, che in Groom era invece defilata. Zemeckis manda il nuovo script a John Travolta. Ma Travolta non si commuove, non gli piace, non è convinto. Pensa allora a Bill Murray, Sean Penn, Matthew Broderick. L’unico che si infiamma è Tom Hanks, che era appena morto di Aids in “Philadelphia”. Tom Hanks diventa Forrest Gump e un po’ di Forrest Gump gli resterà sempre addosso: ecco Forrest Gump nello sbarco in Normandia, naufrago su un’isola deserta dopo un incidente aereo, apolide intrappolato nell’aeroporto JFK.
Anche la Paramount comunque ci credeva pochino. Iniziò a tagliare il budget, spaventata dalle scene in Vietnam e dai costi esorbitanti di una marea di effetti speciali all’epoca quasi impensabili (far chiacchierare Forrest Gump con Kennedy o Nixon, far sparire le gambe del tenente Dan, ferito in Vietnam, cancellando quelle dell’attore Gary Senese al computer). A quel punto Zemeckis e Hanks fanno di testa e di tasca loro. Il budget supera i 50 milioni. Ma il film ne incassa 680 in sala.
Quella di “Forrest Gump” era la storia giusta al momento giusto. Se il bambino paraplegico che diventa un corridore imprendibile ci porta nel cuore del solito, vecchio algoritmo hollywoodiano, Hanks e Zemeckis toccavano anche altre corde. Siamo all’alba dell’era Clinton. Il mondo bipolare è ormai alle spalle. La minaccia comunista un lontano ricordo. La Storia, che in quel momento sembra finita, ha dato ragione all’America. Clinton è un presidente “baby boomer”, il primo nato dopo la Seconda guerra mondiale. Ci sono le incertezze di una nuova economia globale, una rivoluzione informatica ancora misteriosa, lo sgomento di un’America che senza un nemico chiaro e netto deve reiventarsi una sua nuova “indispensabilità”. “Il mondo ha bisogno di un’America forte”, dice Clinton, “e un’America forte comincia in casa”. “Forrest Gump” si mescola a questa svolta anche generazionale della presidenza Clinton, e alla sensazione di essere entrati nell’ultimo scorcio temporale del secolo americano. E allora “Forrest Gump” schiaccia il pedale della nostalgia, un sentimento che sembra fatto apposta per gli anni Novanta e che la nuova tecnologia digitale può rivitalizzare in forme e modi inediti. Quella nostalgia per un’America pura e giovane che Robert Zemeckis aveva già messo in scena una decina d’anni prima in “Ritorno al futuro” e che ora in “Forrest Gump” diventa straripante. L’America si guarda indietro, si abbandona un flusso di ricordi, sensi di colpa, fantasmi, paure collettive. Nel suo primo discorso di insediamento, Bill Clinton dice che “non c’è nulla di sbagliato in America che non possa essere corretto da cosa è giusto in essa”. Una frase perfetta anche per “Forrest Gump”. Una di quelle che avrebbe potuto dirgli sua madre (come il celeberrimo, “It’s the economy, stupid!”, slogan della prima campagna elettorale).
Per i nostri millennial “Forrest Gump” è un film di formazione, come un classico Disney, di quelli da vedere tutti in famiglia da piccoli. Il filmone americano con cui si è cresciuti. Stava anche nei libri di inglese, “Unit 1”, “Lesson 1”, e si usa molto nei videocorsi perché Tom Hanks parla piano, scandisce, lo capiscono tutti. “Ho imparato la storia americana del Novecento con Forrest Gump”, mi dice un mio nipote. Quella italiana invece resta un po’ un buco nero. Non abbiamo “Forrest Gump”, dove ti infili in una storia collettiva che non è la tua ma che lo diventa dopo cinque minuti di film. Qui abbiamo “La meglio gioventù”, e quindi allusioni, strizzatine d’occhio tra complici, la sensazione, per chi non ha vissuto quegli anni, di essere capitato per caso in una riunione di ex compagni di Lotta Continua dove non eri stato invitato. Nel ‘94 a “Forrest Gump” preferivo di gran lunga “Pulp Fiction”. Ricordo però che uscito dal cinema mi era rimasta appiccicata addosso, come a tutti, quella frase, “la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”. Solo che io pensavo ai gianduiotti, ai “Baci Perugina”, coi cioccolatini tutti uguali schierati dentro la scatola, e mi sembrava misteriosa come un haiku. Non capivo: ne prendi uno o un altro è uguale. Mi crollava insomma tutto quel discorsetto molto americano, sul caso, la fortuna, l’audacia, l’ottimismo, le infinite varietà e possibilità del mercato.