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Fellini vuol dire Rimini. Il Museo diffuso dedicato al regista cambia il volto della città

Andrea Minuz

Il vento, i vitelloni, i sogni, ma anche un Grande Romanzo Italiano. Reportage dalla località romagnola

Quando eravamo giovani Rimini era il palcoscenico della libido nazional-popolare, la metafora di una vita leggera, il simbolo di un divertimento progettato su scala industriale, secondo i crismi della via emiliano-romagnola al socialismo scientifico. C’era la Rimini old-fashioned (bagnini a caccia di valchirie, cariatidi da balera, vitelloni da discoteca), c’era la Rimini fluida, non binaria, alternativa, quella dei “weekend postmoderni” di Tondelli, insieme però a Muccioli e ai meeting di Cl, partiti anche loro all’alba degli anni Ottanta, che sono il decennio di Rimini. “Divertimentificio”, neologismo sprezzante di Camilla Cederna, o anche “riminizzazione”, indicavano un’ideologia del turismo sospetta perché pianificata per le masse. Un turismo inventato dal nulla, trasformando case, villini, garage in alberghi e pensioni, con tecniche di ospitalità innovative, a prezzi imbattibili, senza smitragliate d’acqua contro l’overtourism come usa oggi.


“Divertimentificio”, diceva sprezzante Camilla Cederna di Rimini, che però oggi si apre anche al famigerato turismo culturale


Rimini mandava un italiano su due in villeggiatura, l’altro, più ricco, andava in Costa Smeralda. Poi, alla fine degli anni Novanta, ecco la prima mutazione. Una nuova Rimini, olistica, paracaliforniana, sempre incentrata sul culto del corpo, ma con la prestanza atletica che sostituisce quella amorosa. Non più playboy col petto villoso, ma insegnanti di pilates, personal trainer, runner, divoratori di barrette proteiche, guru dell’acquagym e dello yoga: la Rimini “capitale del wellness e del fitness” che ogni anno attira addominali a tartaruga da tutta Italia e ha trasformato spiagge e stabilimenti in tante palestre pied dans l’eau. Finché anche la Rimini edonistica e scopereccia si apre ai piaceri dello spirito. Ecco il demone del turismo culturale, del “patrimonio immateriale”, dei festival della bellezza, della sostenibilità ambientale, insomma il trip delle vacanze intelligenti. Insieme al mare, ai tapis roulant, ai lounge bar, ecco la Rimini raccolta e malatestiana di chiesette medievali, monumenti, fortezze, castelli, viuzze, rovine romane, percorsi museali e itinerari enogastronomici “alla scoperta del territorio”.  Una terza Rimini. La Rimini che ora si specchia nel “Fellini Museum”. Inaugurato poco meno di tre anni fa, questo museo imponente, ambizioso e “diffuso” sta cambiando ancora una volta l’immagine della città. Negli anni Ottanta, di fronte a tutta quella baldoria organizzata sul lungomare, il Wall Street Journal elogiava Rimini come un “pezzo d’America” sulla riviera romagnola. Pochi mesi fa, in un reportage dal titolo emblematico, “Forget Tuscany, for the Real Italy, Visit Emilia-Romagna”, tra una scampagnata nei vigneti del Sangiovese e una visita ai mosaici bizantini di Ravenna, Vogue consigliava una gita al Fellini Museum. I tempi sono cambiati. 


Prima del museo il legame Rimini-Fellini era tutto nella mitologia del “Grand Hotel” di “Amarcord”. Ma il regista era soprattutto Cinecittà


Arriviamo a Rimini in treno, e le prime persone che si incontrano in stazione sono già in costume, infradito, gonfiabili sottobraccio. Ma non siamo qui per le spiagge. Siamo qui per vedere questo museo che nel frattempo ha ricevuto anche gli elogi del New York Times (“bizzarro”, “fantastico”, “sontuoso”). Prima del museo il legame Rimini-Fellini era tutto racchiuso nella mitologia del “Grand Hotel” immortalato in “Amarcord” (quello del film però è un vecchio casinò sul lungomare di Anzio, vicino Roma, da anni abbandonato e in rovina). Insomma, chi era a caccia di reliquie felliniane veniva qui, davanti alla grande facciata arabeggiante del “Grand Hotel”, in raccoglimento come di fronte a un santuario del Maestro. Per il resto però Fellini era soprattutto Cinecittà. Era soprattutto Roma. La sua eredità, il suo immaginario, erano sparsi nella vita stessa della città (i preti, le suore, la fontana di Trevi, l’Eur, il Grande Raccordo Anulare, ecc…).  Il “Fellini Museum” allora è anche un modo di fare finalmente i conti con questa ingombrante eredità. Perché Fellini era per Rimini anche un peso che la città si portava dietro. Rimini, “una parola fatta di aste, di soldatini in fila, un grande respiro vuoto aperto sul mare”, come diceva Fellini, costretta ad assomigliare al borgo di “Amarcord” o a specchiarsi della malinconia dei vitelloni infagottati davanti al mare d’inverno. Ora si apre una nuova èra. Questo processo di riappropriazione, e forse anche di riscoperta di Fellini, comincia con la “Fondazione Federico Fellini”, nata nel ‘95 per volontà degli eredi, incubatrice del progetto che sfocerà poi nel museo. Ma il Fellini Museum è semmai l’epicentro di una vasta riqualificazione culturale che ha catapultato Rimini in finale con l’Aquila come Capitale italiana della Cultura 2026, “una cosa impensabile anche solo dieci anni fa”, dice Marco Leonetti, responsabile della Cineteca e del Museo. Siamo insomma dentro una serie di interventi strutturali che non si fermano a Fellini. “Il museo è solo uno degli elementi di questa trasformazione di Rimini”, dice Leonetti, “attrae un turismo anche diverso, perché magari vengono qui, partono da Fellini, ma poi scoprono anche il trecento riminese, il teatro Galli, il Museo di arte contemporanea, la domus del chirurgo”, che è una residenza romana del II secolo, la casa di un medico con mosaici, affreschi e reperti incredibili tra cui, appunto, circa 150 strumenti chirurgici. Sono ormai alle spalle le polemiche di qualche anno fa sull’opportunità di dedicare un museo a Fellini dentro la Rocca Malatestiana. Uno sfregio, una provocazione di cattivo gusto, secondo alcuni, tra cui l’immancabile Tomaso Montanari, che ha ovviamente bocciato l’idea, convinto che “Fellini sarebbe stato il primo a voler lasciare in pace la rocca” (se lo sa lui). La Rocca però era vuota. Neanche una teca con le monete, un arazzo, due o tre spade, qualche armatura. Niente. “Il fatto è che il cinema non sta dentro la nostra idea di arte e cultura, che su queste cose è molto conservatrice”, dice Leonetti, “mentre la forza del Museo qui è tutta nell’attrito e nel contrasto che si creano tra un palazzo del Quattrocento e l’immaginario di Fellini”.


“L’attrito e il contrasto che si creano tra un palazzo del Quattrocento” – la Rocca Malatestiana – “e l’immaginario di Fellini”


Come si fa però a infilare la vastità dell’opera felliniana dentro un museo? “L’obiettivo del concorso, bandito nel 2018, era proprio questo”, ci spiega invece Orazio Carpenzano, architetto, docente alla Sapienza, responsabile del progetto insieme a Studio DisMisura e ADTP Architetti (mentre l’allestimento e i contenuti sono di Studio Azzurro con la consulenza di Marco Bertozzi e Anna Villari). “L’idea di fondo era creare un polo museale innovativo e immersivo, tenendo insieme aspetti diversi, il cinema di Fellini come spettacolo, emozione, sogno, ma anche la dimensione della ricerca, il poderoso archivio con documenti preziosi, insomma pensare anche al rigore scientifico di chi Fellini lo studia”. “Quanto al progetto”, prosegue, “non volevamo fare un parco a tema, casomai provare a interpretare in chiave urbana e museale i meccanismi poetici dell’opera felliniana”. Un museo quindi “pulviscolare”, come del resto il cinema di Fellini (recita così la motivazione della giuria della Biennale di Venezia che lo scorso anno ha assegnato al Museo il premio “In/Architettura”). Il Fellini Museum è infatti un concept che interagisce con l’architettura della città e si snoda in più luoghi: Castel Sismondo, Piazza Malatesta, il “palazzo del Fulgor”, leggendario cinema riminese, ristrutturato qualche anno fa da Dante Ferretti, dove Fellini bambino vide “Maciste all’Inferno” seduto sulle gambe del papà. Arrivando all’ingresso di Castel Sismondo, passando dalla piazzetta San Martino, ecco il rinoceronte di “E la nave va…”, quello che “dà un ottimo latte”, issato sopra la scialuppa, circondato da un folto gruppo di turisti russi che si fanno i selfie. Dal Palazzo del Fulgor a Castel Sismondo è tutto un “sentiero sonoro” che si srotola tra grandi installazioni ambientali: una panca circolare modellata sulla passerella del finale di “8 ½”, un velo d’acqua con spruzzi, per la gioia dei bambini, che riflette il profilo del Castello e solleva una nebbiolina naturalmente molto felliniana, e poi il “bosco dei nomi”, con le lanterne disegnate da Tonino Guerra, che fanno subito “Amarcord”. Musei del cinema ce ne sono un po’ ovunque, anche a Dubai. Abbiamo visto negli anni mostre formidabili dedicate a Hitchcock, Kubrick, all’immancabile Pasolini, a Tim Burton. C’è un piccolo museo Méliès alla Cinémathèque. Ci sono le case-museo, come il Chaplin’s World, nella sontuosa residenza dell’attore, a Corsier-Sur-Vevey. Pochi mesi fa è stato inaugurato uno “Spazio Antonioni”, nelle sale di Palazzo Massari, a Ferrara. Ed è in effetti curioso che nella stessa regione ci siano ben due musei dedicati a un regista. Ma questo Fellini Museum è un’altra cosa. Un azzardo. Non un contenitore di feticci e santini felliniani, ma uno spazio di reinvenzione dei rapporti tra il cinema, l’architettura, la città. “Il cinema”, dice Carpenzano, “l’ho sempre considerato come un banco di prova per una teoria sull’immaginario urbano, un’architettura della mente, una sorta di autoritratto della civitas e dell’urbs. Nel cinema, come nell’architettura, si possono trovare luoghi che rimandano a un immaginario ancora mai visto”.


Ecco i confessionali di “8 ½”: li apriamo e partono testimonianze, ricordi, confidenze di amici e collaboratori storici


Entrando nel museo dalla grande arcata di Castel Sismondo, ecco l’altalena sospesa di “Lo sceicco bianco” e il ghigno di un Alberto Sordi pupazzo a grandezza naturale che ci fa strada. Subito ci si trova immersi nell’ambiente quasi piranesiano di questa fortezza di torri e scarpate, quasi una cittadella fortificata, diventata poi un carcere comunale, dismesso solo alla fine degli anni Sessanta. Il primo ambiente, passando sotto Alberto Sordi, è fatto di suoni: un soundscape aggrovigliato di voci di bambini riminesi, pezzi di film e radiodrammi scritti da Fellini da giovane, musiche in lontananza e naturalmente la sua vocina flautata. Al centro dell’atrio, in alto, un plico di fogli squadernati sopra le nostre teste, da cui si intravede una pagina della sceneggiatura di “La dolce vita”. C’è il Cristo che vola su Roma all’inizio di “La dolce vita”, il dolly impantanato nel fango del Grande Raccordo Anulare, i tubi innocenti che fanno subito set. C’è il volto di Giulietta Masina, proiettato in loop su un telo di iuta che si srotola dal motofurgone di Zampanò nel film “La Strada”.  E poi altri feticci, sempre però reinventanti. Ecco un pupazzone gigante di Anita Ekberg, spiaggiata e dormiente, e intorno, proiettata al ralenti come un incantesimo, la scena della Fontana di Trevi. Ecco i confessionali di “8 ½”: li apriamo e partono testimonianze, ricordi, confidenze di amici e collaboratori storici, Tullio Kezich, Mastroianni, Sordi che parla dei “Vitelloni” in un ottimo francese, Benigni che spiega: “Ormai non si sa più che dire di Fellini, su Fellini è stato detto tutto… Fellini è… una cravatta! E’ la merceria dell’universo!”. E poi gli elementi naturali. Perché il cinema di Fellini è fatto di nebbia, vento (ah il magnifico vento felliniano!), e quel mare per lo più finto, fatto coi teloni di plastica, smosso dai ventilatori, come l’adriatico di “Amarcord”, come la laguna del “Casanova”. Un mare minaccioso, sempre immaginato o ricordato, che per Fellini fa lo stesso, dentro lo studio 5 a Cinecittà. E poi ancora la sala dedicata a Nino Rota, senza schermi, solo la sua musica, il sound inconfondibile dei motivetti felliniani, con spartiti e documenti alle pareti, e la grande palla d’acciaio del finale di “Prova d’orchestra” che frana dal soffitto.

 

Dentro questo museo dove non ci sono vere stanze, saloni, corridoi, ma sembra invece di errare in un complicato gioco di vasi comunicanti, Fellini si sente a casa. Diventa una categoria esistenziale. E l’idea di metterlo fianco a fianco ai pezzi di repertorio Luce che raccontano il paese, dalla scuola fascista alle tv private, sottolinea quanto e come al di là del sogno, dell’invenzione fantastica, dell’inconscio, di Jung e di Bernhard, Fellini sia stato anche e soprattutto un Grande Romanzo Italiano. E’ questa una delle idee di fondo del Museo. Fellini come un vasto, strabiliante catalogo di italianità: Rimini, Roma, Venezia, il Vaticano, l’Italia della piccola provincia pigra e malinconica e l’Italia contadina, arcaica, misteriosa. “Un giorno mi piacerebbe fare un film sui contadini romagnoli”, diceva ripensando alle estati da bambino a Gambettola, fuori Rimini, “un western senza revolverate, intitolato, ‘Osciadlamadona’, una bestemmia, lo so, ma come suono è più bello di ‘Rashomon’”.

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