Banel & Adama

Mariarosa Mancuso

La recensione del film di Ramata-Toulaye Sy, con Khady Mane, Mamadou Diallo, Binta Racine Sy, Moussa Sow

L’effetto di una seria scuola di cinema come la parigina Femis su una regista di origine senegalese nata nel 1986. Si potrebbe anche chiamare effetto “United Colors of Benetton”, ricordando le campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani – e tutte le rivisitazioni, imitazioni, plagi. In sintesi: colori sgargianti su pelli nere, e sullo sfondo – qui perlomeno – la sabbia del Senegal. La ribelle fanciulla Banel, che rifiuta il velo e tiene i capelli corti, ama Adama da sempre. E’ stata però costretta a sposare Yero, che di Adama è il fratello maggiore, nonché capo della tribù. Quando Yero muore, possono sposarsi. Anzi devono: la vedova viene presa in carico dal fratello morto, si chiama “levirato”. Forse discende dalla poliandria, forse dalla necessità di garantire mantenimento e protezione alla vedova e agli orfani. Vale anche per i maschi che rimangono vedovi, se c’è una sorella della moglie (succede nel film di Rama Burshtein “La sposa promessa”, titolo originale “Fill the Void”). La regista non si sofferma, per questo lo spieghiamo noi. E’ troppo occupata a riprendere pelli nere, abiti e stoffe colorate in contrasto, gialle azzurre o verdi, rincorse nel vento e affettuosità varie. Ma non doveva essere un amore contrastato, tipo Romeo e Giulietta? Sicuro: lui non vuole fare il capotribù, come gli toccherebbe, e lei non vuole figli. Preferisce sparare con la fionda agli uccellini. In quel momento il pubblico di Cannes si è risvegliato, carico di orrore.

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