Madame Luna

Mariarosa Mancuso

La recensione del film di Daniel Espinosa, con Meninet Abraha Teferi, Claudia Potenza, Hilyam Weldemichael

Potrebbe essere il seguito di “Io capitano”, regista Matteo Garrone. Le storie sono differenti, qui abbiamo una donna invece di due ragazzi, anche i motivi del viaggio sono diversi. Ma grazie a “Madame Luna” vediamo cosa accade dopo che gli immigrati toccano la costa italiana. In Calabria, per essere precisi. In un centro d’accoglienza dove i disperati ricevono 2 euro e mezzo al giorno per le piccole spese – però dire “pocket money” nobilita la miseria – e devono spenderne uno al giorno per avere un cellulare e chiamare casa. Chi ancora ne ha una, e anziani parenti che lì vivono. Il regista Daniel Espinosa è svedese di origine cilena, tiene la macchina da presa fissa su Almaz, che dice di essere eritrea senza documenti. Sola e bisognosa di tutto, in Italia come tanti altri clandestini. Finché una ragazza, anche lei al centro d’accoglienza, la riconosce: “Sei quella che ha organizzato la barca con cui sono arrivata qui”. Almaz nega, cerca di sottrarsi. La ragazza mostra la foto del fratello, rimasto in Libia e torturato. Ora però il regime è cambiato, Madame Luna non ha più i suoi complici, lei è dovuta scappare in Italia. Organizza i braccianti che vanno a lavorare nei campi e raccolgono le olive 15 euro a fine giornata (li riunisce e li comanda in tre lingue, molto professionale). Fa amicizia con una donna che le dice in confidenza: “I veri affari si fanno fuori. riceviamo i soldi per pagare le cooperative e le cooperative sono nostre”.

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