Cate Blanchet alla Mostra del Cinema di Venezia - foto LaPresse

Venezia 2024

Alba d'essai alla Mostra del Cinema di Venezia

Saverio Raimondo

Svegliarsi alle sei, uscire di casa, mezz'ora di navigazione sul battello, poi un'altra a piedi per un film. Sono queste cose che mi fanno dire "Wow"

Venezia, dal nostro inviato. Ok le feste, il red carpet, le conferenze stampa, i caffè a otto euro sulla terrazza dell’Excelsior; ma il Festival del Cinema di Venezia è soprattutto le proiezioni in sala. La gente viene qui effettivamente per vedere i film (o le serie, purché d’autore); e li vede sul serio, ci tiene proprio, si mettono la sveglia all’alba o vanno a dormire tardi per assistere a uno spettacolo la mattina presto o a mezzanotte, e se serve fanno anche la fila fuori. Da quest’anno la Biennale ha previsto la Rush Line per chi non ha il biglietto, non l’ha trovato o gli è sfuggito: ti metti in coda, e se ci sono posti liberi (e di solito ci sono, non si presentano mai proprio tutti, c’è sempre qualche bulimico che si è prenotato compulsivamente a più film di quanti effettivamente il suo metabolismo riesca a reggerne in dieci giorni di vaporetti, spritz, baccalà mantecati e film georgiani), se si libera un posto dicevo ti fanno entrare in tempo per i titoli di testa. Risultato: sale sempre piene. (Poi magari durante la proiezione, specie se di diverse ore, qualcuno se ne va: l’altra sera per le prime quattro puntate di “Disclaimer” di Cuarón, una dietro l’altra per un totale di 181 minuti, si segnala che non pochi hanno approfittato dei momenti in cui Cate Blanchett era fuori campo e non li vedeva per alzarsi alla chetichella e uscire).
 

Il cinema in sala, dunque; quel rito collettivo che doveva essersi estinto, era dato per morto, e invece eccolo qui. Certo, appunto, qui: in Sala Grande, al PalaBiennale, in Sala Darsena, Sala Giardino, Sala Corinto, Sala Casinò, Sala Perla, Sala Volpi, Sala Asta 1 e 2. Poi dall’8 settembre queste sale si svuotano di colpo, tutti tornano a casa propria, molti in qualche città o paese di provincia dove già è tanto se c’è un cinema nei paraggi, figurarsi se pieno. Il cinefilo che qui si mette in fila e vive gomito a gomito con i suoi simili, l’inverno poi sverna su Mubi. Risultato: il cinema in sala non è morto e non morirà mai, forse siamo noi che non stiamo più tanto bene – in sala. Non si è più abituati a spegnere il telefono durante il film, e così ogni tanto capita, durante la proiezione, di vedere nel buio un laser verde antipirateria guizzare contro qualche smartphone acceso – di solito su WhatsApp, dunque niente pirateria, è solo soglia dell’attenzione bassa. Non si è più abituati a sentire qualcuno accanto a noi ridere o comunque reagire al film che stiamo vedendo: l’altro giorno in sala ho sentito palpabile il fastidio di alcuni spettatori alle mie risate per delle battute e gag molto divertenti che stavano andando sullo schermo di fronte ai nostri occhi, non nella mia testa.
 

Soprattutto, non c’è più la postura: troppo divano ha fatto sì che non sappiamo più stare composti su quelle poltroncine. Specifico: io non amo quei cinema che hanno rifatto le platee con delle poltrone larghissime, con braccioli doppi e poggia piedi, voglio dire siediti e guardati il film, non hai bisogno di stravaccarti, poi ci credo che ti addormenti. Le poltrone a Venezia sono comode punto, senza tanti extra o plus; ma la gente ha perso il galateo del bracciolo  – il quale prevede che, per poter poggiare il gomito entrambi, uno lo metta in fondo e l’altro un po’ più avanti; se lo metti in mezzo sei un incivile sociopatico, e a me tocca stare con le braccia conserte come fossi un buttafuori davanti a un film. Però che bello svegliarsi alle 6.00, uscire di casa, farsi mezz’ora di navigazione, poi un’altra mezz’oretta a piedi, e spararsi i faccioni di George Clooney o Brad Pitt o Angelina Jolie alle 9.00 di mattina: è lisergico senza essere tossico, altro che Lsd.

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