Una scena del Film "Un americano a Roma" con Alberto Sordi

L'analisi

Incentivi sbagliati e autoreferenzialità: i problemi del cinema italiano

Marco Gambaro

Boom dello streaming, incertezza delle sale, difficoltà dell’export. Sono alcuni degli elementi critici all'interno della nostra industria cinematografica che fa fatica a sfondare sulla scena internazionale nonostante bonus e investimenti da parte del governo. Qualche idea

Le luci scintillanti alla Mostra di Venezia danno l’occasione per qualche osservazione sull’industria e sul mercato cinematografico. Tra i dati positivi c’è la ripresa post Covid dei biglietti che secondo i dati Cinetel nel 2023 hanno superato i 70 milioni. Si tratta però di una cifra distante dai 90 milioni su cui si erano consolidate le sale tra il 2016 e il 2019, un livello difficile da recuperare perché, come succede in altri paesi, la diffusione delle piattaforme durante il lockdown è di carattere strutturale.
 

Secondo Agcom nel marzo 2024 Netflix aveva 8,2 milioni di abbonati, seguita da AmazonPrime (6,9) e Disney+ (3,8). Dati confermati da E&Y che parla di 8,8 milioni di abbonati streaming, con 2,2 abbonamenti a testa. Le piattaforme ormai, assieme alla tv, costituiscono il principale canale attraverso cui si vedono i film, pertanto non ci si dovrebbe focalizzare troppo sulle sale quando si ragiona del settore, anche perché queste rappresentano solo un quarto dei ricavi complessivi di un film e meno ancora della redditività.
 

Naturalmente l’esperienza della sala resta unica, ma non bisogna dimenticare le dimensioni del consumo. Un po’ meno di metà della popolazione va al cinema circa 3,5 volte l’anno, che significa 1,4 biglietti pro capite. Nello stesso periodo un utente Netflix (considerando che consuma a metà film e serie) vede 45-50 film e quasi altrettanti ne ha visto lo spettatore tv (pay inclusa) e di altre piattaforme. Insomma, l’italiano medio vede su uno schermo tv un centinaio di film l’anno e 1,4 nelle sale, con un’evidente gerarchia nel consumo. Le sale sono sotto i riflettori però per almeno due altre ragioni: sono il luogo dove si rivela il valore di un titolo per il pubblico perché, anche quando un film è finito, nessuno ha idea di che valore abbia e che successo avrà; in secondo luogo è l’unico canale per il quale abbiamo dei dati precisi.
 

Forse per questo il ministro della Cultura Sangiuliano ha continuato la tradizione inaugurata da Franceschini di finanziare riduzioni di prezzo con il Bonus Cinema. Annunciato alla fine del 2022 consiste in uno sconto sul prezzo del biglietto se il film è europeo (visto che era impossibile restringere il sostegno ai soli film italiani). Le dotazioni finanziarie sono però ridotte ed è presumibile che lo sconto sia usato da chi già va al cinema. Ogni spettatore nuovo è un guadagno netto, ma se il sussidio viene utilizzato da chi sarebbe andato comunque, si tratta di puro spreco. Il ministero – come spesso accade in Italia con i bonus – non si è mai preoccupato di misurare gli impatti, l’elasticità della domanda rispetto al prezzo e la dimensione dello sconto ottimale delle varie iniziative, anche se i dati sarebbero disponibili.
 

La quota del cinema italiano sul consumo è di circa il 25 per cento con un calo rispetto agli anni pre Covid. Si tratta di un fenomeno comune a tutti i paesi europei. Sembra ormai una situazione irrecuperabile su cui si srotolano auspici e speranze, ma mai politiche specifiche che superino l’inutile e stretto approccio protezionistico. Eppure la storia della Corea (del Sud) insegna. Tra gli anni 90 e il 2000, partendo da un cinema sussidiato e protetto, con un mix di liberalizzazione e supporto snello ha riconquistato quote di mercato interno e sviluppato l’export.
 

Il problema è che in Italia, come in tutta Europa, si producono troppi film con budget troppo bassi. Il film mediano europeo ha un budget da 2 milioni (fonte EAO), dato che coincide con le rilevazioni Anica per l’Italia, e che è di circa 10 volte inferiore rispetto ai budget negli Stati Uniti e metà di Bollywood. Si tratta di uno svantaggio insormontabile in un settore dove i costi fissi di produzione determinano anche, in qualche modo, la qualità del prodotto. I troppi film prodotti, problema constante di tutta l’industria europea, dipendono dal livello elevato di sostegno che spinge troppi piccoli a tentare la fortuna, oltre a far proliferare i finanziamenti relazionali.
 

Un ulteriore problema è costituito dalla crescita dei prezzi dei fattori di produzione di circa il 40 per cento, come dichiarato da Paolo Del Brocco a.d. di Rai Cinema. Si tratta di un aumento ampiamente previsto quando, nel recepimento della  direttiva sui Servizi Media, sono stati introdotti obblighi di produzione per le piattaforme (di fatto una  forma di dazio e limitazione all’import) tra i più elevati in Europa. L’offerta di cinema non è elastica perché alcuni fattori produttivi sono scarsi (i talenti soprattutto) e quindi il picco della domanda non ha generato solo un aumento dell’output, ma una crescita delle rendite per i fattori scarsi.
 

Infine, nei ragionamenti sul cinema si cita spesso il soft power e il sostegno al Made in Italy, ma la proiezione del cinema italiano sui mercati internazionali è piuttosto limitata, come illustrano alcuni dati di una ricerca più ampia che stiamo conducendo assieme a Laura Bonacorsi Università Bocconi. Con i nostri principali partner europei il saldo tra biglietti esportati e importanti è costantemente negativo. In Francia  i film italiani vendono circa un quinto dei biglietti che i film  francesi vendono in Italia. Con la Gran Bretagna il saldo è molto peggiore, ma lì pesa la presenza di produzioni Usa in Uk. Con Germania, Spagna, Belgio e Svezia siamo a circa la metà. Però abbiamo un saldo positivo con Svizzera, Polonia, Grecia e Portogallo. In generale, la propensione all’export dell’Italia è circa la metà degli altri grandi produttori europei: 14 per cento contro 28-35 per cento.
 

Nel costruire politiche pubbliche che puntino a rilanciare l’industria, anche sui mercati internazionali, occorre fare molta attenzione all’allineamento degli incentivi. In un settore dove non si conosce la domanda e non si è in grado di prevedere in anticipo la qualità del prodotto (nobody knows), sganciare troppo chi prende le decisioni produttive dal rischio può produrre effetti deleteri, come troppi film piccoli e autoreferenziali.
 

Marco Gambaro è professore di Economia dei media presso l'Università Statale di Milano