Foto Ansa

Venezia 2024

Alla Mostra del cinema di Venezia partono le scommesse: vincerà “Queer” il Leone d'oro?

Mariarosa Mancuso

A Città del Messico, tra taverne e tequila, Daniel Craig interpreta William Lee nella nuova pellicola di Luca Guadagnino che racconta la storia d'amore uscita dalla penna di William Burroughs 

Il film più atteso alla Mostra di Venezia 2024. Il film più atteso di Luca Guadagnino, che pure ha tra le sue colpe “The Protagonists” con Tilda Swinton, e “Io sono l’amore” (ancora ricordiamo una scena erotica nei prati, per quanto una scena tra api e fiorellini possa dirsi erotica). Il film con un titolo che terrà lontane le maestre democratiche – tutte in fila per la miniserie di Sergio Rubini su Giacomo Leopardi. William Burroughs non è nel programma di studi, alcuni dei suoi romanzi, per quanto fascinosi, sono piuttosto illeggibili – succede quando si tagliano testi in striscioline, e poi si assemblano come in un collage.

“Queer” ancora no. Scritto negli anni Cinquanta, considerato scandaloso e uscito una trentina d’anni dopo, è una storia d’amore sotto il cielo messicano. Blu, di quel blu che si intona perfettamente agli avvoltoi. “Cielo” è un modo di dire, perlopiù sono catapecchie con i vecchi materassi su cui scorrono i titoli di testa. Sesso non tantissimo, se paragonato alle fantasie di Daniel Craig – perfetta controfigura dello scrittore Burroughs, erede della ditta di calcolatrici che porta il suo nome. E alla sua folle passione, poco ricambiata, per il giovane americano Eugene Allerton.

Siamo a Città del Messico, in un quartiere fedelmente ricostruito a Cinecittà. Taverne, locali, tequila e qualsiasi altra cosa utile a sballarsi (particolarmente disgustoso un brandy locale). Daniel Craig, grandissimo attore sequestrato da troppi James Bond, è William Lee, controfigura romanzesca dello scrittore. Vestito di bianco via via stazzonato, il cappello che Burroughs ha in quasi tutte le foto, seduce il giovanotto – che un po’ si concede un po’ no, ha voluto un contratto scritto. Quando non si concede, l’elettricità tra i corpi è ancora più erotica. Partono insieme, in cerca della pianta allucinogena chiamata yage – ora in gran voga come ayahuasca. Al Lido fervono scommesse – vincerà il Leone d’oro? Possiamo contare su Isabelle Huppert presidente della giuria? Le piacerà la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross?

In programma dopo “Queer” c’era “Harvest” di Athina Rachel Tsangari. Medioevo inglese, già viene voglia di scappare. Resistiamo fin quando quasi tutto ricorda l’horror “Midsommar” di Ari Aster: la festa di mezza estate che i forestieri credono idilliaca, tutta coronino di fiori in testa. Trattandosi di un antico rito, è piuttosto cruenta. Gli inglesi sono allo stadio precedente, alla fine del Cinquecento. Raccolgono il raccolto, poi festeggiano e arriva il cugino del sovrano, che cerca di portare un po’ di modernità. Sono cose che quasi mai riescono senza intoppi.

Da quando il Covid ha lasciato in eredità le prenotazioni obbligatorie, è difficile ai festival fare vere scoperte, come capitava saltando da una sala all’altra (“Senza averlo deciso prima”, direbbe Maurizio Milani). Figuriamoci vedere per intero le serie in programma: metà “Disclaimer” di Alfonso Cuarón ora, l’altra metà su Apple tv+, dopo l’11 ottobre.

Consideriamo un gran privilegio essere riusciti a vedere, nella sezione Orizzonti che potrebbe vincere, “Maldoror” di Fabrice Du Welz. Grande regista belga che ci ha tenuti incollati allo schermo per due ore e mezza raccontando Marc Dutroux. Più noto alla cronaca nera come Mostro di Marcinelle: rapiva ragazzine, le teneva in cantina spesso senza cibo. Negli anni Novanta, su uno sfondo di miniere e edifici industriali in rovina. “Maldoror” – dal titolo del poema scritto nel 1869 dal Conte di Lautréamont, pseudonimo di Isidore Ducasse – era il nome della sezione segreta che indagava sugli omicidi. Il giovane poliziotto capisce che avrà contro anche i colleghi.

Di più su questi argomenti: