(foto Ansa)

Il Foglio Weekend

Sul red carpet con l'ex ministro Sangiuliano

Michele Masneri

Alla Mostra del Cinema di Venezia pensando a Roma e al caso Boccia. Divi, antidivi, e gli occhiali della Repubblica

Oltre ai divi, bellissimi e impupazzati dagli stilisti, a Venezia sfila come sempre una magnifica varietà umana locale e globale. Sul “red carpet”, che collega l’hotel Excelsior al palazzo del Cinema, le lance trasportano celebrità siderali – ecco Gaga! Ecco Daniel Craig! – e influencer de quarta, signore di provincia con fotografo personale, sciurette e sciuretti che poi si buttano sul fatale tappeto, salutando folle inesistenti e poi postano tutti i “contenuti”. Il red carpet è anche una delle cose più divertenti del festival, il melting pot sempre uguale e sempre diverso del Lido: c’è la coppia di influencer, uno in smoking bianco e l’altro nero, che taggano marche di elettrodomestici, c’è chi è stato “portato” da stilisti, c’è l’esperto di giardini, l’ubiquo badante di signore titolate, una dama di stirpe dogale che racconta delle mille cene anzi dinner per salvare Venezia e però: “con tutti questi dinner tra un po’ non rimarrà neanche un capitello da restaurare!!”. C’è Diane von Fürstenberg, la nuova dogaressa della laguna, reduce dal documentario Disney + su di sé, e dal premio intitolato a sé, “Diane von Fürstenberg Award”, e porta qui ulteriori celebrità. Tra tutte Oprah, che tutti chiamano “Ofra” (Ofra! Ofra!) e che dichiara solennemente di non essere mai stata a Venezia, il che pare un po’ bizzarro. “Dvf” è la più titillata, invitata, agognata, va in giro a dire a tutti “ho scelto Venezia per l’inverno della vita”, ma in laguna fa caldissimo, si è tutti appiccicati, poi dopo è tutto un correre alle feste “con la lancia”. “Io vado ovunque, basta che mi portino con la lancia”, si sente dire.

 

Si pone naturalmente il problema dell’outfit, per il benedetto red carpet. Se la prima è alle 18 come si andrà vestiti? Non in smoking certamente, “a meno di non essere nella walking delegation”. Ohibò, e che è la walking delegation? Il gruppetto che entra trotterellando con regista e cast, ti dicono sospirando. Poi arrivati all’Excelsior è sempre la solita esilarante confusione di americani stuccati e caramellati, sciure di Treviso o Tarvisio in lungo, autori der cinema romano con la camiciola di lino e la borsa di Tolfa; giovani milanesi della moda in tuta da lavoro, direttori chic di riviste in pigiami Miu Miu. Presto, avanti con la “walking delegation”! Il pensiero però corre soprattutto a Roma, alla politica, al caso Boccia, che supera e scavalca ogni “original script”. Del resto il 28 agosto il ministro era qui, quando ancora il caso non era deflagrato del tutto e non aveva portato alle dimissioni finali arrivate ieri in serata. Falcava il red carpet con la moglie Federica Corsini e quella piccola cicatrice sulla fronte (secondo alcuni, “una padellata”). Forse il Lido gli ha portato male, anche nella lettera di dimissioni di ieri del resto ha citato i tagli ai contributi al cinema come possibile causa di “molte inimicizie”.

 

La politica intanto si sarebbe presa tutto lo spazio nei giorni successivi. E del resto la Treccani segnala come l’espressione red carpet sia invalsa nell’italiano corrente nel 2002 ma si sia consolidata nel 2007 e nel 2008 soprattutto con riferimento politico, a Goffredo Bettini e Umberto Bossi (!). Intanto, mentre scorrevano le pellicole e si misurava l’applausometro, tanti pensavano soprattutto alla vicenda Boccia. I numerosi romani del cinema, dei ministeri, delle partecipate statali, del sottobosco capitale commentano Dagospia coi telefonini nascosti come Fantozzi durante la Corazzata Potemkin e dichiarano che insomma si è sempre fatto così tra quegli uffici della Camera e del Senato che gli addetti ai lavori chiamano “Marini 1”, “Marini 2”, eccetera, ed è lì sulle passatoie rosse romane che si compie l’eterno red carpet degli imbucati che partecipano da esterni alla produzione del gran circo politico. Smandrappati, smandrappate, cugini di giù, stagisti, giornalisti pubblicisti. Intanto scorrono i titoli di questi film sullo schermo, “produttore”, “prodotto da” “e da”, e “executive producer”, ormai sembra che ci siano più produttori che spettatori in sala, ci si mette in venti a fare un film, ma anche nella politica forse è lo stesso, lo schermo è diventato piccolo, come diceva Gloria Swanson in “Viale del tramonto”, ma lo staff è sempre più grande. Rimborsi spese, strette di mano, “passi”, tesserini. Sarà la mancanza di “professionalism” che del resto riguarda tutte le filiere del paese, politica e cinema non possono esser da meno. “Aho, proprio te cercavo, dovemo firmà per quella sceneggiatura”, dice uno. “Sì, ma ve l’ho mandata un anno fa”, risponde l’altro. “Dovemo fa er contratto, ricordamelo quando tornamo a Roma”, “se’, vabbè, bohhh”. La bistrattata politica, alla fine, pare più efficiente del cinema italiano, oltre a rappresentare l’unico show business possibile. Quanto più avvincenti sono Maria Rosaria Boccia e il suo Instagram rispetto alla serie-kolossal ennesima su Mussolini con Marinelli con occhio a palla, del resto?

 

E qui non c’entrerà la discendenza anche genetica di Giorgia Meloni con il prozio Agenore Incrocci, cioè il vecchio grande Age della commedia all’italiana, ma come diceva la celebre massima di incerta attribuzione, “Politics is show business for ugly people”, la politica è lo show business di chi non ha il fisico. E Tom Hanks intervistato qualche anno fa su una possibile sua discesa in campo rispose citandola, quasi offeso: però un attore o attrice o regista anche bruttissimo sarà arrivato al suo primo festival di Venezia avendo collezionato una serie di esperienze sentimentali e anche sessuali formative; invece spesso sul red carpet romano o americano della politica ci si arriva inattrezzati, e di lì le padellate. Pronti al trappolone della lusinga di letto. Bisognerebbe fare un piccolo rewatch di commedia all’italiana, per esempio “Il complesso della schiava nubiana” del geniale film a episodi “I complessi”, dove Tognazzi integerrimo politico democristiano in ascesa conduce una vita monacale ma a un certo punto salta fuori che la moglie ha partecipato in gioventù a un filmetto softcore, e da lì discenderanno una serie di disavventure che lo porteranno ad essere fotografato con sdegno in uno dei balletti verdi gay di quegli anni (un “Queer” involontario). O “Il vigile”, dove Vittorio De Sica è un sindaco che intrattiene una liaison con una biondissima Sylva Koscina a cui regala giraffe di pezza. Ma anche il cinema meno autoriale, coi vari onorevoli in vacanza con amanti in città e viceversa, Lino Banfi e Renzo Montagnani, insegnava che la prima trappola che si pone all’inesperto politico anche integerrimo calato dalla provincia è quella del letto. Ci vuole davvero minimo uso di mondo per sapere che a Roma diventerai improvvisamente bellissimo e fascinosissimo e contesissimo, quando avrai l’auto con paletta, eppure ogni volta ci cascano tutti. Un tempo c’erano organismi di vigilanza e intendenza, tipo i salotti, che filtravano anche le frequentazioni. Il politico che arrivava a Roma dal remoto paese magari poteva contare su cenacoli come quello di Maria Angiolillo, che selezionavano, indirizzavano, davano consigli, ma adesso? Tutto disintermediato, tutto digitale.

 

E il problema è proprio che sono cambiate le tecnologie. Nell’età della sicurezza, diciamo l’èra Nokia, quella pre 2007, quella insomma prima che l’iPhone fosse inventato, queste cose non succedevano. Poi venne il telefonino con la telecamera e niente è stato più uguale. “La struttura crea la sovrastruttura”, diceva Marx (Karl, non Groucho) e non c’è dimostrazione di materialismo storico più evidente di questa. L’iPhone ha distrutto tra le altre cose le doppie vite, e se a signore e signorine molto ambiziose un tempo erano richieste altre virtù – “non basta il fisico”, ammoniva il commenda nel film “Il vedovo” con Alberto Sordi, oggi chi voglia fare carriera in questi settori deve investire soprattutto nelle tecnologie. Qualche tempo fa si parlava molto dei vari “oculus” e occhialoni in grado di soppiantare il cinema e farti vivere esperienze immersive di vario genere, ma finora non si sono viste grandi riuscite; Maria Rosaria Boccia ci ha già immerso fino al collo nella sua storia.

 

Noi non possiamo non stimarla, però, perché quegli occhiali, i Ray-Ban registranti, con cui ha postato, frutto della collaborazione tra la Ray-Ban e Facebook, li si aveva anche noi, e non siamo mai riusciti a farli funzionare. Ce li avevano dati per testarli, con quella montatura pesante da Onassis a celare quella tecnologia avveniristica. Si è provato mille volte a capire come usarli, decifrando le istruzioni, ma niente. Quando si era riusciti a far finalmente partire la funzione “registra”, a parte che la qualità delle immagini era tipo quelle di Guantanamo, si accendeva un fascio di luce bianca, quella citata da Maria Rosaria Boccia, che illumina l’eventuale registrato. Ma forse nei ministeri non se ne accorgono (sarà la solita luce romana che acceca tutti e tutto).

 

L’unica funzione che ci sembrava interessante era quella di auricolare, in sostituzione delle cuffiette, ma non si è mai riusciti ad attivarla, più difficile che collegare il condizionatore alla rete wi-fi. Qualche esperto ci aveva detto che in realtà questi occhiali non eran fatti per funzionare veramente, era solo un’operazione pubblicitaria. E il New York Times, in una recensione di mesi fa, stroncava abbastanza anche la nuova versione dotata di intelligenza artificiale. Ci voleva la furbizia analogica Orientale (inteso come ateneo napoletano, ma lei ha fatto la Pegaso) di Boccia per dare finalmente un uso congruo a questo device.

 

E ci sarebbe peraltro una bellissima sottostoria sugli occhiali della Repubblica, quella del vecchio Leonardo Del Vecchio, fondatore della stirpe e della Luxottica, che possiede Ray- Ban, al matrimonio del figlio più piccolo e scapestrato, Leonardo Maria, con la magnifica Anna Castellini Baldissera, qui sul red carpet qualche giorno fa. Matrimonio celebrato d’un soffio su uno yacht da parte del capitano, poi naufragato dopo pochi mesi (il matrimonio, non lo yacht), si racconta con clamorose buonuscite, ma niente confessioni al Tg1, argent oblige. Ah, se si potesse fare un Triangle of sadness italiano, altro che M figlio del secolo! Alla cerimonia nuziale allargata dei giorni seguenti il vecchio Del Vecchio non si filava di striscio invitati e sposi e stava invece tutto il tempo al telefono con Mark Zuckerberg per chiudere la collaborazione non solo sugli occhiali; del resto nelle scorse settimane si è parlato di una possibile entrata di Zuckerberg nel capitale Luxottica. Dopo qualche giorno, il patriarca perì. Del Vecchio jr. è presidente del marchio Ray-Ban ma punta anche al grande schermo, ha appena rilevato la Leone cinematografica (e Sergio Leone fu regista giovanile anche di “Gli ultimi giorni di Pompei”). E l’omonima Vittoria Leone invece bella e procace first lady era seguita in tutti i suoi spostamenti sui panfili di Stato dai servizi segreti, ma non ne uscì mai nulla. Ma erano tempi diversi, dove l’idea di occhiali registranti evocava tutt’al più quelli a raggi x che si trovavano pubblicizzati sulle riviste che si leggevano quando non si aveva voglia di fare i compiti, e promettevano di farti vedere attraverso gonne e pantaloni, per un voyeurismo un po’ onanistico pomeridiano.

 

E però, sul capitolo sicurezza del G7 “Cultura” i cui piani sarebbero stati condivisi e registrati da Boccia coi fatali occhialetti, non è che la stiamo facendo un po’ tutti troppo tragica? Quali segreti inenarrabili nasconderanno le riunioni segrete “di staff”? La valigetta nucleare con dentro tutti i titoli dei temi di maturità dei paesi membri? O i conti segreti della Netflix della Cultura di Franceschini? Ci saranno complotti, attentati? Forse dovremo richiamare in servizio Daniel Craig al servizio di Pompei? Con nuovo outfit by Loewe (il marchio d’abbigliamento, non di televisori).

 

E ha un bel gigioneggiare Tony Blair che intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere diceva qualche giorno fa che oggi non è sicuro che ministri e capi di governo vari abbiano un cellulare (forse è al corrente dell’affare Boccia): che lui per esempio girava senza. Grazie: si era ancora in epoca Nokia, erano altri tempi, pensate cosa mai avrebbe potuto combinare Monica Lewinsky con un iPhone 16 in mano, altro che il vestito macchiato in tintoria. Sabina Began, detta l’ape regina, early adopter delle tecnologie di registrazione, collezionava ardenti sms a futura memoria, del Cav. ma anche di Italo Bocchino (poi rivelò di avergli teso una trappola). E gli audio di Patrizia D’Addario e delle olgettine sono ormai cultura pop condivisa: così come le foto nel bagno di palazzo Grazioli (esistono pure video, ma rarissimi). E però tutti sappiamo che un video non è un audio e non è una foto. La legge di Marshall McLuhan prevede che ogni nuovo medium non fa scomparire gli altri: ma li trasforma. La tv non manda in pensione la radio, ma la relega a un altro ruolo. Così gli audio rubati sembrano reperti preistorici rispetto ai video. Vi ricordate le vecchie pubblicità dei “videofonini 3” con Andreotti sull’aereo insieme a Valeria Marini? Anche lì, cattivo tempismo, il “videofonino” arrivò troppo presto, non c’erano i social, si pensava che tutti ci saremmo messi a guardare tv e cinema sul telefono, e non la versione arricchita delle diapositive delle vacanze che sono i social d’oggi.

 

Questa vicenda è anche la prova, l’ennesima, peraltro, della fine della tv lineare. Con la trasformazione del Tg1 in “C’è posta per te” e la confessione di Sangiuliano in prime time, sembrava che più che l’occupazione di frequenza pubblica per fatti privati si trattasse di una astuta mossa per pompare gli ascolti del primo telegiornale nazionale: ma non ha avuto per niente successo. Come ha detto il massmediologo Massimo Scaglioni a Famiglia Cristiana (sic), “guardando gli ascolti dell’intervista a Sangiuliano si nota che il Tg1 al momento delle sue dichiarazioni perde per strada mezzo milione di spettatori, passando da quattro milioni a tre milioni e mezzo, per poi risalire quando comincia ‘Affari tuoi’ dopo il Tg fino a oltre quattro milioni”. Insomma lo schermo è diventato piccolo, ma la politica ancora di più.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).