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Venezia 2024

Il Partito dell'amore è stato la vera e unica avanguardia politica italiana

Antonio Gurrado

È stata la prima formazione politica repubblicana ad indetificarsi anima e corpo col proprio leader prima di Berlusconi, lanciando proposte fin troppo in anticipo per l'epoca, con elementi, idee e colori ad oggi di uso quotidiano fra i partiti italiani, sia a destra che a sinistra 

Sorge il sospetto che “Diva futura”, il film di Giulia Steigerwalt presentato a Venezia, non intenda tanto mostrare come Riccardo Schicchi abbia cambiato il comune sentire degli italiani nei confronti del sesso (forse non è mai cambiato), bensì voglia mostrare fra le righe i semi della trasformazione politica dell’Italia negli ultimi trent’anni. Diva futura, l’agenzia di pornostar che ha lanciato Cicciolina e Moana Pozzi, è stata infatti l’humus da cui ha preso vita il famoso Partito dell’amore, fondato nel 1991 dallo stesso Schicchi con Mauro Biuzzi. All’epoca giornali e tg si concentrarono sulla pittoresca sensualità del movimento, nelle cui fila militavano altre starlet come Eva Orlowski e Barbarella, ma fu una scelta pigra: in realtà Cicciolina sedeva in parlamento sin dal 1987, eletta nel Partito Radicale, quindi la candidatura di altre pornostar non doveva di per sé causare svenimenti. L’attenzione alla porzione di programma dedicata al sesso – riapertura delle case chiuse, individuazione di angoli dei giardinetti adibiti agli amoreggiamenti, abolizione dell’oltraggio al pudore – finì dunque per oscurare non solo gli altri temi del programma elettorale ma la stessa dottrina del partito.


La prima conferenza stampa risale al 5 marzo 1992, in un agone politico che aveva da poco registrato l’arresto di Mario Chiesa. Da uno scavo filologico sul materiale d’archivio, il senno di poi consente di trarre un gran numero di chiari avvertimenti di ciò che sarebbe avvenuto fino ai giorni nostri: viene quasi da rimproverare al Partito dell’amore di essersi presentato prima che gli italiani fossero pronti a digerire una proposta politica che, all’epoca, risultava tanto dirompente da venire accolta con risatine imbarazzate; di essere stato un partito troppo avanguardista, quasi precognitivo, perciò ridotto ad accontentarsi di poche migliaia di voti. Lo intuì il conduttore di una tribuna politica su Telemontecarlo, che ammise di trovarsi di fronte a qualcosa “di diverso, di strano, di nuovo”.
E’ stato infatti il primo partito personale della storia della Repubblica, il primo cioè a presentare sul proprio simbolo l’identificazione totale con un leader: all’epoca fece scalpore che, incorniciato in un cuore, sulla scheda elettorale apparisse il viso di Moana, mentre oggi è del tutto scontato che ciascun partito accompagni il proprio simbolo con il nome di chi lo guida, materialmente o spiritualmente. Moana stessa non faceva mistero che “un deputato con la mia popolarità può fare più di un altro”, annusando la progressiva sperequazione fra i deputati-vip sui social o in tv e i peones condannati a svolgere l’oscuro lavorio amministrativo. In quella stessa trasmissione, vaticinò sia il taglio ai parlamentari per risparmiare (“Io dimezzerei, un bel taglio netto in due”) sia il desiderio dell’uomo forte (“In Parlamento c’è troppa confusione, la situazione è poco controllabile”). 


Del resto, ripeteva Biuzzi, era un partito “di contenuti”, quindi pragmatico, e “di imprenditori”: prima della discesa in campo di Berlusconi, le attrici e i produttori rivendicavano la rappresentanza politica diretta della gente che fattura. Come colore aveva scelto il rosa, anticipando i cattolici adulti del Pd nella scelta di porsi come compromesso fra “l’area bianca della cultura religiosa cattolica, con fine divino, e l’area rossa della cultura laica e scientifica, con fine l’uomo”. E, quando Beppe Grillo andava ancora in onda sulla Rai, Biuzzi già derubricava tutto l’arco costituzionale a “super partito unico”, al cui “linguaggio alienato” opporre un “partito terapeutico” espressione della società civile, per un “Parlamento ellittico” che distanziasse i deputati amorosi al magma indistinto dei partiti tradizionali.
C’è perfino un vaghissimo tono meloniano nell’allure dell’unico manifesto elettorale di Moana, quello celeberrimo per le comunali di Roma nel ’93: a Gianfranco Fini non era ancora arrivato l’endorsement berlusconiano, e già lei si proponeva come leader dall’aria istituzionale e affabile con tricolore davanti all’Altare della patria. Intanto, durante le tribune elettorali – cui era relegata insieme ai rappresentanti di Alleanza umanista, Democrazia corporativa e libertà, Movimento popolare cristiano uomo e ambiente, e così via – insisteva salvinianamente sul rispetto della legge e sulla necessità di tenere in galera i condannati (non diceva però di buttare la chiave), auspicando altresì una riforma della giustizia. Al contempo si faceva icona di sinistra, proponendo mezzi di locomozione elettrici e blocco totale del traffico con toni più perentori degli ambientalisti odierni, esortando a “battersi con amore per la natura”. Le sue frasi sulle “notizie di delitti e soprusi orribili” potrebbero oggi essere usate come manuale della reazione automatica dei politici ai casi di cronaca più cruenti. 


Fin troppo facile citare il desiderio di Berlusconi di trasformare Forza Italia nel “Partito dell’amore”. E’ probabile che tanto lui quanto Schicchi e Biuzzi avessero in mente il titolo di una dimenticabilissima canzone di Nilla Pizzi del 1957, in cui una signora, lamentando di sentirsi trascurata poiché l’amato andava ai comizi (“Ma io farò il partito dell’amore / donando come pegno questo cuore”), si lasciava andare a un grillismo d’antan: “Ai tempi d’oggi per queste elezioni / si fanno cose che fanno pietà. / Si fan promesse con speculazioni / e poi parlano pure d’onestà”. Siamo molto distanti dalle elucubrazioni di Biuzzi sul “Cristo-Dioniso androgino e crocifisso” nel corso delle tribune elettorali; forse però il Partito dell’amore, lungi dall’essere stato il brillio di un inatteso concentrato di bellezza e misticismo, è stato piuttosto l’espressione dadaista della più confusa antipolitica che alberga nel cuore dell’Italia sin dagli anni Cinquanta, e che a inizio anni Novanta iniziava ad assediare media e istituzioni. Nel 1992 Biuzzi invitava a votarlo con gli occhi chiusi, “come se sognaste”. Poi abbiamo fatto sogni peggiori.