Industria del cinema
Tax credit e storture. I limiti dei finanziamenti discrezionali e la lunga strada per superare la logica dei sussidi
Una riforma vorrebbe introdurre misure più stringenti per la selezione delle opere cinematografiche da finanziare, ma si scontra con la classica mancanza di obiettivi da perseguire e il continuo ricorrere a tavoli e confronti. Senza risolvere le anomalie del sostegno pubblico al cinema
La riforma del tax credit per il cinema si è trascinata molto a lungo e il settore ha dovuto aspettare per un anno i decreti attuativi che sono arrivati durante l’estate, mentre nell’attesa molte produzioni si erano fermate o si erano spostate in altri paesi, e questo ha fatto incancrenire le relazioni. Le misure approvate presentano contemporaneamente elementi di cambiamento e continuità rispetto al quadro precedente di sussidi. Il tax credit rimane l’elemento centrale del sostegno, ma vengono introdotti alcuni paletti tra cui un limite alla quota sul budget e la necessità che i produttori trovino indipendentemente il 40 per cento del budget, obbligo di spese minime in promozione e comunicazione un contratto di distribuzione che assicuri un minimo di proiezioni in occasione del lancio.
Assieme ad altre misure l’effetto è stringere un po’ le maglie della selezione. Inoltre viene creato un fondo di contributi selettivi che nelle intenzioni del ministro dovrebbe promuovere i valori nazionali. Sebbene infarcito da una certa dose di retorica contro i salotti di sinistra che caratterizzerebbero il cinema, le misure mirano a correggere alcune storture che si erano accumulate nella gestione operativa del tax credit. Infatti in molti casi se al tax credit elevato si aggiungevano qualche finanziamento europeo (Media e Eurimages) e i generosi contributi delle Film Commission regionali, un produttore praticamente si ritrovava coperti tutti i costi di produzione. A questo punto gli incentivi a fare un film per il pubblico, a promuoverlo e a distribuirlo concretamente erano inesistenti. Non parliamo poi di esportazioni che infatti languono.
Nel tempo si sono accumulate storie su film che ricevono finanziamenti ricchi senza essere mai distribuiti o che realizzano incassi ridicoli, ma al di là del folclore gli addetti ai lavori e i funzionari del ministero erano convinti che occorresse correggere almeno le storture maggiori del meccanismo che in alcuni casi era diventato possibile leva fiscale per società che poco avevano a che vedere con la produzione cinematografica. Quando era stato introdotto, il tax credit aveva seguito un movimento comune in tutta Europa nella trasformazione di sussidi discrezionali in sussidi automatici, che per molti versi sono meno distorcenti. Infatti quando ci sono commissioni che decidono i finanziamenti vanno sempre ai cugini della commissione. Cugini in senso lato che includono allievi, alleati, con orientamento simile. L’aver ampliato i finanziamenti discrezionali, con l’obiettivo esplicito, almeno nelle interviste, di un ribilanciamento ideologico sposta indietro le lancette dell’orologio e rischia di riportare alla ribalta i fasti dell’articolo 28 dove le commissioni davano i sussidi anche e forse troppo ad amici e ad amici di amici. Diverso sarebbe pensare uno strumento per le opere prime e seconde con una logica da venture capital, ma questo sembra molto difficile con le commissioni che ci troviamo, il cui primo imperativo è non scontentare nessuno. Ma naturalmente anche i contributi automatici hanno i loro problemi tra cui quello che è difficile definire degli indirizzi e che se sono costruiti con maglie troppo larghe le situazioni paradossali si moltiplicano.
Qui veniamo agli elementi di continuità con la politica per il cinema. Il principale è costituito dal fatto che né questa riforma né il quadro legislativo precedente dichiaravano in nessun punto gli obiettivi che si vogliono perseguire, non nelle interviste, ma nelle disposizioni legislative. In questo, seguendo un orientamento abbastanza tipico dell’industria culturale italiana dove il sussidio è utile e buono di per sé. Ma gli obiettivi possono essere diversi: produrre più film per aumentare la varietà, produrre meno film, sostenere l’occupazione sotto la linea, sostenere l’occupazione sopra la linea (attori e registi), aumentare la quota di mercato del cinema italiano, aumentare le esportazioni. Sono obiettivi tutti legittimi, non sovrapponibili, spesso divergenti e che richiedono strumenti diversi. Dichiarare prima gli obiettivi, come a bridge, obbliga a ragionare su come funzionano gli strumenti e soprattutto consente misurazioni ex post che consentono nel tempo di fare fine-tuning ragionato sulle misure.
Il secondo elemento di continuità è costituito dall’abuso di tavoli con gli operatori che porta a una abdicazione del potere pubblico e della sua capacità di indirizzo. I tavoli servono da alibi per la ridotta capacità progettuale e di analisi delle strutture pubbliche. In Francia e Gran Bretagna il Centre Nazional de l’Audiovisuel e il British Film Institute non si fanno troppo dettare l’agenda dai produttori e le associazioni di turno.
Questa è la ragione per cui non credo che queste misure riusciranno a correggere le storture che hanno caratterizzato i sussidi italiani e che temo, continueranno a caratterizzarli. Il cambio di passo che sarebbe necessario è veramente un’altra cosa.