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Quattro lezioni più una apprese da Brad Pitt e George Clooney sul red carpet di Venezia

Fabiana Giacomotti

Soldi, social e potere non c’entrano. Tra fan impazziti, selfie e autografi, le due stelle del cinema mostrano come il vero divismo sia ancora inavvicinabile e irresistibile

Ero lì, di fronte al Palazzo del Cinema, per cui ho visto, ma soprattutto ho provato sulla mia pelle, che cosa può accadere quando in un festival di celebrità ordinarie, acerbe, mediocri, dimezzate o decotte, arrivi finalmente un divo vero, anzi due. Ed è successo che non sono riuscita a fendere la folla, rimanendo bloccata per un tempo incalcolabile in un intrico laocoontico di braccia e gambe sudate e fiati di birra, e non ce l’ho fatta a raggiungere la gelateria sotto le arcate che portano all’Hotel Excelsior, dove si vende il solo e unico gelato al caffè artigianale del Lido, al quale ambivo da ore. Questo perché a cinque, o forse dieci metri di distanza a seconda della spinta esogena di quella massa urlante con i cellulari accesi e svettanti in aria come le antenne della tv sui terrazzi di Roma, stavano per materializzarsi le due presenze più attese della Mostra del Cinema di Venezia edizione 81 e che naturalmente non erano Lady Gaga e nemmeno, o tanto meno, Angelina Jolie, ma Brad Pitt e soprattutto George Clooney. Per qualche secondo ho temuto di morire come le tizie al funerale di Rodolfo Valentino di cui scrissero i giornali del 1926; non le suicide, che pure non mancarono, ma le fan schiacciate nella calca, che all’epoca erano il corollario mediatico necessarissimo di ogni dipartita celebre e sulle quali i quotidiani si dilungavano, ecco il marito della cara estinta che no, non sapeva dove si sarebbe recata sua moglie quella mattina, ecco i figli piangenti della povera mamma che sognava di accoppiarsi con lo sceicco bianco.

Sbaglia chi crede che i social abbiano cambiato i codici del divismo perché il solo possesso di un account Instagram ci renderebbe uguali al nostro idolo personale e perché che cosa volete che siano due o tre o cento milioni di follower di differenza. La mediaticità diffusa e facilmente accessibile ha reso semmai la gente più accanita e pretenziosa nella ricerca di un rapporto con chi gode di fama vera e certificabile. Tutti esigono il video e il selfie col divo, se non registro e non filmo ‘o ministro non mi crederà e nemmeno voi “wonderful people out there”; tutti vogliono esibire la prova documentale, da cui, appunto, l’epico red carpet di quaranta minuti, con un Brad Pitt un po’ titubante, l’espressione ma-tu-guarda-che-cosa-mi-tocca-fare dipinta sul volto, e Clooney invece a suo agio come se fosse stato fra un migliaio di amici e certamente per lui tutta quella gente lo era, venite che vi offro un Nespresso. Un episodio da annali della storia del cinema fra battute, gag, autografi firmati a nastro anche ai disgraziati stretti nell’angolo della transenna dalla quale non si vede niente perché si trova quasi alle spalle dei fotografi accreditati che alla fine del festival si attribuiscono il premio Salsicciotto d’oro per il migliore scatto (l’istituzione è di quel genio di Alfonso Catalano che sembra tanto mite ma che invece sa sempre quando puntare l’obiettivo per davvero e quando invece fingere per non deludere la moglie dello sponsor che si è messa in ghingheri e aspetta di percorrere i suoi cinquanta metri moquettati da una vita).

Molte ore e un party dopo, quando sono finalmente schiantata sul divano della camera e ho rivisto in tv l’interpretazione dei due, ho capito perché entrambi tengano botta da decenni nonostante le qualità attoriali non eccelse dell’uno e gli eccessi alcolici dell’altro, e questo perfino a prescindere dalla bellezza che, come tutti sanno o possono intuire, è elemento importante ma non essenziale del divismo. Li ho visti muoversi, atteggiarsi e sorridere, o tentare volonterosamente di farlo, come attraverso gli schermi dei cellulari accesi in mezzo alla folla non era stato possibile, pensa a quante indemoniate avranno postato sui propri account il solo ciuffo di Brad, irriconoscibile, ma con l’hashtag #iocero, e ho mandato a mente anche un sacco di informazioni fresche sull’argomento “divismo oggi”, che a giudicare dalla bibliografia spiccia pare appassioni parecchio i sociologi. La prima: bisogna possedere una grande sicurezza di sé per apparire alla mano come i tempi social impongono (quante carriere anche minori sono state danneggiate dalla denuncia irosa per il selfie mancato al ristorante, ricordate Lazza con la tizia che registrò tutto e poi pubblicò su TikTok finendo sul canale del corriere.it fregiandosi dell’aggettivo “virale”?) e al tempo stesso inavvicinabili, cittadini di un pianeta diverso, provvisti della famosa sostanza impalpabile di cui sono fatti i sogni e che un tempo, come oggi, compone la ricetta segreta del divismo.

La seconda: nonostante il film di Paolo Sorrentino e le molte, perfide apologie del potere che ci ha narrato, non si diventa divi facendo i dané, oppure orchestrando governi e forze occulte, sebbene il film proprio questo volesse raccontare di Giulio Andreotti, “il divo” come l’aveva ribattezzato Mino Pecorelli da cui il titolo della pellicola e di molti libri su un delitto mai davvero risolto, e che per un certo periodo, guarda caso, aveva governato anche i fondi e la censura sul cinema italiano e che dunque appare in innumerevoli foto in Sala Grande seduto accanto alle dive vere come Anna Magnani. Il divismo, qualità umana equiparabile alla divinità per meriti preclari e dunque assimilata alla mitologia, e come ovvio speculare alla nozione “fan” che dal tardo latino di fanaticus come maniaco religioso deriva, non contempla infatti il successo negli affari nemmeno se si è dei figaccioni brillanti e seduttori naturali come lo era Raul Gardini, ma prevede la sola riuscita nelle arti o nella bellezza, cioè nel puro godimento estetico offerto alla vista degli altri. Da questa sostanziale differenza nascono decenni di definizioni modaiole pre-inclusive attorno al tal vestito e alla tale modella, tutti incomparabilmente “divini”, e molte battute nei film e nelle canzoni soprattutto dei Settanta, vedi “la” Raffaella Pavone Lanzetti industriala milanese spiaggiata con il rude e amorevole marinaio Giancarlo Giannini.

La terza informazione che ho tratto da quell’omerico tappeto rosso è conseguente alle prime due: l’aumento dei media disponibili ha infatti solo amplificato le opportunità concesse ai divi di palesarsi come tali, ma il divismo non ha mai perso il proprio carattere originale, che è esclusivo, inavvicinabile, e che aumenta nel restare tale. Non sono affatto d’accordo con Vanni Codeluppi quando, in un suo saggio relativamente recente sul fenomeno, scrive che i divi odierni siano “un po’” più simili al resto del genere umano. Lo sono e non lo sono da sempre, ed è proprio la loro qualità super-umana a renderli attraenti. Le folle che nei Trenta correvano al cinema a vedere Clark Gable al cinema sapevano perfettamente che fosse nato in una fattoria sperduta dell’Ohio e che portasse la dentiera, ma questo non rendeva lui più bovaro e loro meno, anzi: che sapesse catturare i buoi col lazo e governasse in prima persona il suo ranch di Encino era la dimostrazione che anche in un luogo dimenticato da dio, un dio poteva nascere, rifarsi la chiostra dei denti e sedurre milioni di femmine.

La quarta, utile lezione che ho appreso sul divismo guardando il tg e il “Cinematografo” notturno di Gigi Marzullo è che Hollywood e il cinema sono arrivati appunto molti secoli dopo la definizione dello status e la codifica delle prerogative del divismo moderno e popolare. Che ha invece una data precisa, ed è il 2 maggio del 1589. Se leggeste le cronache che accompagnarono l’esibizione di Vittoria Archilei, detta “la romanina”, nel ruolo dell’“Armonia doria” mentre discendeva gorgheggiando dal soffitto della sala degli spettacoli degli Uffizi avvolta in un peplo e seduta su una nuvoletta di cartapesta per le celebrazioni seguite alle nozze di Cristina di Lorena con il Granduca Ferdinando, vi rendereste conto che l’uso del termine nei secoli post-neroniani e della lira imperiale, gode appunto di un debutto, che è antecedente di quattrocento anni rispetto a quanto potreste leggere anche adesso su Wikipedia e che ha poco a che vedere, come ovvio, col cinema, ma molto con il teatro e soprattutto con la voce. Sulla Archilei, che dopo il successo mediceo fu la prima interprete dell’“Euridice” di Jacopo Peri, cioè dell’opera che viene considerata alle origini del melodramma italiano e che venne composta per il matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia, una digressione corposa è necessaria perché nelle sue esibizioni e nella cura dei dettagli dei suoi look mostra di non avere nulla da invidiare ai publicist che oggi curano i post dei profili “official” dei loro protetti (credete davvero che gli attori o anche certi stilisti li curino da soli e che non vedano l’ora di condividere con noi le loro colazioni col beverone all’alga spirulina? Sognate, e il beverone si trova comunque in vendita magno pretio su Amazon).

Narrano dunque le cronache che, per ben figurare con i reggenti di Firenze e così procurarsi altri ingaggi riccamente pagati, necessari per garantirsi una vecchiaia tranquilla e forse persino una sepoltura in terra consacrata che ad attori e cantanti veniva rifiutata, la bella Vittoria avesse mostrato una gran cultura classica personale, zero stylist e zero brand col comunicato pronto “siamo lieti di annunciare che”, e si era fatta confezionare appunto un peplo a grandi volute di madreperla e oro scoloranti sul verde traslucido, nel tentativo pare molto riuscito di riprodurre i riflessi luminosi di un cosmo in fieri. C’era, naturalmente, il precedente dello spettacolo organizzato un secolo prima da Leonardo da Vinci per le nozze di Gian Galeazzo Maria Sforza con Isabella d’Aragona di cui oggi si conserva qualche disegno presso la corte d’Inghilterra, ma appunto era trascorso un secolo e il canto singolo, sopranile, intonato da fanciulle di nobili proporzioni e voce soave, era diventato modello imprescindibile di spettacolo. L’Archilei, bellissima, si era anche pittata la faccia di polvere d’oro, dimostrando così di conoscere – o forse gliel’avevano raccontata, ma insomma non si trattava di argomento incognito – che nel III secolo dopo Cristo il neoplatonico Porfirio avesse scritto che i simulacri siano di materia traslucida, come appunto la madreperla e il cristallo, poiché devono rappresentare e manifestare la materia del divino la quale, non avendo una corporeità concreta e opaca come quella dei mortali, non può che essere luminosa e pressoché trasparente. Inoltre, essi simulacri rendevano “per mezzo dell’oro l’idea del fuoco e della sua incorruttibilità, perché l’oro non si corrompe”. Insomma, eccovi spiegata la predilezione di cui ha dato prova anche Julianne Moore in fourreau laminato di Bottega Veneta sul red carpet del film di Pedro Almodóvar, “The room next door”, che poi avrebbe vinto la Mostra (titolo del femminile “Marie Claire”: “L’oro vivo addosso”) e il motivo per il quale anche re Luigi XIV, quando volle fare storia come un po’ tutti i regnanti o gli aspiranti tali, si vestì in costume dorato.

Ultima lezione appresa. Perdere le qualità del divino è la peggiore iattura che possa accadere, come ci insegna il pur bruttissimo film di Pablo Larraín “Maria”, il primo film con uso di lirica da cui risulta evidente che nessuno dei partecipanti ne capisca un’acca, regista compreso, e a giudicare dagli articoli nemmeno i critici, che per maggiore misura hanno unanimemente applaudito Angelina Jolie, perfino quando ha raccontato di aver studiato canto per sette mesi senza però aver mandato a mente l’informazione più essenziale anche per un sincrono da dilettante, e cioè che quando si canta, oltre alle labbra più o meno gonfiate tocca muovere anche i muscoli del collo, da cui due ore di effetto pesce rosso nella boccia che lasciava straniti almeno quanto le sue unghie lunghe e la totale incapacità di cogliere almeno i tratti essenziali del divismo, per i quali non basta riprodurre vecchie foto d’archivio e il costume di Salvatore Fiume per la Medea, conservato (e molto ben pagato) al Teatro alla Scala.

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