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Dopo Venezia 2024

Padre Pedro: da ribelle e anticonformista, Almodóvar è diventato vescovo laico progressista e allineato

Giulio Meotti

Nella sua ultima opera, il regista spagnolo appare caricaturale e convenzionale, continuando rappresentare un occidente oppressivo e reazionario, nonostante la società sia ormai libera e aperta a tutto: un vuoto pulpito ideologico in formato film

Nel 1991 un giudice della Corte suprema olandese di nome Huib Drion immaginò il giorno in cui ci si sarebbe potuti dare la morte con due pillole acquistabili in farmacia: “La nostra società fornisce già molti mezzi perché le persone possano porre fine alla propria vita: ci sono treni sotto cui gettarsi, ci sono edifici da cui cadere, ci sono canali e fiumi in cui annegare, ci sono corde che si possono comprare. Ma si tratta di risorse poco attraenti. Alcuni membri di questa società potrebbero avere accesso a risorse più accettabili: medici, farmacisti. Ma per la maggior parte delle persone tali mezzi non sono disponibili, oppure potrebbe essere necessario recarsi in un paese lontano nella speranza di riuscire lì, più o meno subdolamente”.


Pedro Almodóvar ha immaginato di farci un film, “The Room Next Door” (“La stanza accanto”), Leone d’oro a Venezia. Un’inviata di guerra affetta da cancro terminale e un’amica scrittrice di successo, che accetta di accompagnarla nella sua dolce morte, si trasferiscono in una villa di lusso nei boschi, dove la donna malata prende una “pillola della morte” trovata sul dark web e con su scritto “goodbye”. La pillola di Drion. Unico contraltare nel film è un poliziotto, il classico “fondamentalista religioso”, che critica l’amica compiacente. Geniale operazione a tavolino per penetrare il ricco mercato nordamericano, accarezzando l’ideologia woke. Morte a Venezia. Grande regista, pessimo ideologo, Almodóvar, martire della cultura della morte dopo aver ricevuto i suoi diciassette minuti di applausi dalla platea del Lido incitando al suicidio assistito in tutto il mondo.

              

 


Il ministro della Cultura spagnolo, Ernest Urtasun, si è congratulato con il regista per “un film commovente sul valore dell’amicizia, della cura e del diritto inalienabile a una morte dignitosa”. Oh, la famosa “morte con dignità”. Simone Weil ha già detto che dove c’è un errore grave nel vocabolario, è difficile che non ci sia un errore grave nel pensiero.


L’esperimento canadese con l’eutanasia è iniziato nel 2015, poco prima di quello spagnolo, quando la Corte suprema ha stabilito che “le leggi che proibiscono il suicidio assistito interferiscono con la libertà e la sicurezza” delle persone con condizioni mediche “gravi e irreparabili”. Il Parlamento ha codificato la decisione l’anno successivo. Il messaggio è che se vuoi morire, non devi aspettare. Rivela il Wall Stret Journal di questa settimana che “ciò che doveva essere eccezionale è diventato di routine”. L’81 per cento delle richieste di eutanasia sono esaudite, anche per “perdita della vista/udito” e “diabete”. Il Canada ha così oggi il “programma di suicidio assistito in più rapida crescita” al mondo.

 

Il problema comunque non è l’ipocrisia del regista di successo amico dei poveri, ma il nuovo Almodóvar, che diceva di aver girato i suoi primi film “come se Franco non fosse mai esistito”. Il dittatore era morto a letto e Almodóvar ha iniziato a ballare sulla sua trapunta. Da giovane pensava di essere frivolo e di dover filmare la corrida dei desideri. Maturando, il regista anticonvenzionale “ha preso coscienza”. E, da frivolo, è diventato caricaturale e convenzionale.
Oggi in Spagna il divorzio è un totem. L’aborto un diritto di libertà procreativa. L’eugenetica uno strumento di progresso. La pillola è del giorno prima e del giorno dopo. L’eterologa una condizione di beatitudine per la mamma single. Il matrimonio gay una bandiera. E da un paio di anni hanno anche l’aborto per le minorenni e l’eutanasia per tutti. Almodóvar ha vinto la sua battaglia per liberare la società spagnola, eppure come molti rivoluzionari è un vincitore disonesto: continua a sfornare film in cui sembra che la società occidentale sia oppressiva e reazionaria. E così dalla Spagna al Canada, due paesi tradizionalmente cattolici, l’eutanasia esce dal dark web per entrare nell’agenda di tutti i governi. Ma per Almodóvar non è abbastanza. “La destra va all’assalto dei diritti” ha detto il regista da Venezia. Ma se la destra di Rajoi al potere dopo Zapatero non ha rimesso in discussione una sola legge progressista? D’altronde la ministra per l’Uguaglianza di Pedro Sánchez, Irene Montero, non ha forse detto che “tutte le culture e le religioni” hanno modi “di opprimere le donne” e di “disciplinare il loro corpo” e che “succede in Afghanistan, ma anche in Spagna”? 


“Il primo Almodóvar era davvero diverso, originale, nel contesto spagnolo e internazionale” ci racconta Miguel Ángel Quintana Paz, intellettuale eclettico di Spagna, un accademico che scende sul ring, entra nei set televisivi e discute sui social. “Quell’Almodóvar a me piaceva. Ma l’Almodóvar recente mostra sempre di più un coinvolgimento politico, una assoluta obbedienza all’ideologia del governo spagnolo, non solo al woke. Il governo riprende il discorso sulla guerra civile? Almodóvar fa un film sulla guerra civile, o meglio sulle conseguenze della guerra per la sinistra. Il pensiero woke internazionale usa Almodóvar per riempire un vuoto, che è quello che lascia il suo nichilismo di fondo. I princìpi per cui bisogna lottare sono quelli che dice il governo. Si vede da un suo film, ‘Dolore e gloria’. Il protagonista alter ego di Almodóvar, un regista, è arrivato all’età avanzata senza valori, parola brutta. Gli amori giovanili se ne sono andati, non c’è voglia di avere di più, il suo corpo non sopravvive agli eccessi di gioventù, è un corpo malato che non dà più piacere, da qui il ritorno alle droghe, al cercare un ricordo nostalgico del passato, ma senza futuro. E’ curioso che uno dei primi film di Almodóvar, ‘Matador’, sia dedicato al mondo del toro.

                                     

 

Il protagonista è Antonio Banderas ma è stato dimenticato da Almodóvar, è il film di cui meno parla, perché a quel tempo era un modo di guardare originale e postmoderno e un tentativo di recuperare la tradizione spagnola. Almodóvar non vuole riprendere un argomento, la tauromachia, oggi molto controverso e contro cui la maggioranza della sinistra è schierata. Almodóvar non sarebbe più l’avanguardia del progressismo, che oggi include l’animalismo. Un altro suo film, sul femminismo, è ‘Madri parallele’”. E c’è poi sempre la questione religiosa e cattolica: “Non c’è Spagna senza cattolicesimo, che ha luci e ombre, ma quando lo si vede in Almodóvar non c’è mai nulla di positivo. Nel film ‘La legge del desiderio’ c’era una critica alla Chiesa, ma c’è anche un uso degli altari e dei santi e della tradizione molto simpatizzante verso un passato cattolico. Oggi non più. La Chiesa, penso a ‘La mala educacion’, ne esce in modo terribile, come qualcosa di ridicolo. Almodóvar è diventato estetismo e ideologia, un vuoto culturale”. Veniamo all’eutanasia: “E’ l’ultima bandiera della sinistra piantata nella società, ma cominciano a venire dei dubbi. Mesi fa una giovane spagnola che voleva l’eutanasia è stata quasi per farcela, ma i genitori hanno fatto ricorso al giudice perché la ragazza era depressa, non malata terminale. E’ stato un caso sensazionale, ma immagini quanti altri casi simili sono finiti invece in tutt’altro modo. Qui Almodóvar chiude un arco cominciato da Alejandro Amenabar nei primi anni Duemila, che fece un film sull’eutanasia sotto Zapatero”.


Lo scorso aprile, Almodóvar firma un appello sul “genocidio a Gaza” e per il “riconoscimento dello stato palestinese”, sia mai che non ci si batta per il cessate il fuoco e contro Israele e Hamas non apprezzi abbastanza la posizione del governo iberico. Nel 2003 era in piazza a Madrid per leggere un manifesto contro la guerra in cui si affermava che “l’Iraq ha adempiuto con le risoluzioni dell’Onu”, mentre il vero obiettivo della guerra era “rimodellare la regione mediorientale imponendo la presenza di Israele”. Imporre? “La realtà spagnola non è soltanto cattolica ma anche islamica, cinese, magrebina”, ha detto un cordiale Almodóvar  in un programma di Serena Dandini. “Bush è uno dei cinque peggiori pericoli per l’umanità”, ovvio. E il regista definì Papa Ratzinger e Berlusconi “un incubo per l’Europa”.
Dopo l’horror granguignolesco di Atocha, la promessa di radiosi futuri di pace e diritti filmata da Almodóvar. Verdad y paz, scandirono gli spagnoli. Se tu non vieni a patti con il terrorismo di matrice islamica e gli fai la guerra, sei responsabile della sua reazione, sei colpevole dei morti fatti dagli amici di Osama bin Laden. Questo volevano dire, gli spagnoli con Almodóvar. Per la prima volta un atto terroristico aveva ottenuto da un paese europeo quello che i suoi autori si proponevano. Non solo far esplodere le bombe sui treni, ma far saltare maggioranze politiche. Provocarono morti civili e morti politici. Il segnale inviato ai terroristi islamici era chiaro: “Messaggio ricevuto”. “Contro il ritorno alla normalità”. Era l’8 maggio 2020, piena pandemia e tutti i paesi bloccati, quando Almodóvar lanciò un altro appello contro “la ricerca del consumismo e l’ossessione per la produttività”. Il capitalismo, il nuovo nemico.


Almodóvar a Venezia ha chiesto l’accoglienza dei minori migranti e si è espresso contro chi esprime scetticismo sul clima. “Il mio film è la risposta a quelli che in Spagna e in Europa vengono definiti discorsi d’odio. Vorrei parlare dei bambini privi di aiuto che lottano per arrivare nei nostri confini e il governo manda la marina affinché impedisca loro di entrare. Questo è un delirio, è stupido e ingiusto. Anche la questione del cambiamento climatico non è per niente uno scherzo, dobbiamo fare molta attenzione. Il film parla di una donna agonizzante in un modo a sua volta agonizzante, ognuno di noi deve manifestarsi ed essere contrario a tutte queste manifestazioni d’odio. Il nostro pianeta è in pericolo, ma possiamo entrare in un pericolo molto più grande”.


Una donna agonizzante in un mondo a sua volta agonizzante: l’eutanasia come viatico per curare altri mali. Non deve essere per niente facile per questo eroe postmoderno unire l’immigrazione, il cambiamento climatico, l’eutanasia e l’animalismo. E’ facile invece capire che, con così tanti fronti aperti da unire, ci si confonda e si finisca per scommettere sulla morte come soluzione alla sofferenza. Capace di grandezze estetiche (o estetismi) molto ruffiane, Almodóvar resta il bravo figlio della Spagna perbene e zapatera da quando con “La mala educación” puntò tutto sull’anticlericalismo e sui collegi dove fu traviata la meglio gioventù spagnola coetanea del regista. Già il suo film con Penelope Cruz, “Madres paralelas”, aveva tutto per compiacere il regime politicamente corretto: superiorità ideologica dei progressisti (“tutti gli attori sono di sinistra”, dice un personaggio), femminismo (Penelope Cruz sfoggia una maglietta con la scritta “Dovremmo essere tutti femministe”) e, ovviamente, la guerra civile (a quanto pare, nella guerra civile sono stati assassinati solo i falangisti).


Oggi Almodóvar è diventato un vescovo laico. Se non c’è più arte che non sia politica e non c’è più politica che non sia puritanesimo, Almodóvar sembra più vescovo dei vescovi che ama attaccare. Un vescovo giacobino approdato a Venezia per affrontare il tema dell’eutanasia, che ormai è un tema  da omelia e un tema da premio. Almodóvar dice di aver imparato molto dell’eutanasia dalla morte del suo amato gatto, con il quale aveva vissuto per quindici anni. “Hanno fatto una tac perché c’era un nodulo. Tre giorni dopo mi diedero il risultato e il gatto dovette essere sacrificato perché ormai il tumore era in  metastasi. Per me è stato incredibilmente doloroso. Non credevo che si potesse soffrire così tanto. In quel momento tutto quello che avevo imparato è scomparso, con la difficoltà di accettare che un essere vivente dovesse essere sacrificato. E ricordo perfettamente che la sera prima mi guardava e mi chiedeva del cibo”.
Su una cosa ha ragione, don Pedro Almodóvar: “Il politicamente corretto uccide la creatività”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.