"Vittoria" dimostra che si può fare un film su una storia vera senza sbrodolare verso la tv del dolore

Mariarosa Mancuso

La recensione del film di Alessandro Cassigoli, Casey Kauffman, con Marilena Amato, Gennaro Scarica, Vincenzo Scarica

Si può fare. Un film di 80 minuti su una storia vera. Di affetti e sentimenti e fissazioni, senza sbrodolare verso lo spettacolo del dolore televisivo. Dei ricongiungimenti famigliari. Della adozioni-spettacolo: basta uno sguardo perché due individui che non si sono mai visti prima, che non parlano la stessa lingua, che sono anche un po’ diffidenti (qui da entrambe le parti, e il film diventa subito credibile). Jasmine ha 40 anni, vive nei dintorni di Napoli, ha tre figli maschi e un salone da parrucchiera ben avviato – e una serie di pettinature assurde a scopo pubblicitario, o forse no, proprio le piace il biondo sfacciato con rasatura asimmetrica. Da quando suo padre è morto ha un sogno ricorrente: una bambina che corre verso di lei, per farsi abbracciare. Decide che il sogno deve diventare realtà, combattendo con il marito che fabbrica mobili e vorrebbe aprire una falegnameria a Capri. Soldi non ce n’è tanti, ma Jasmine è cocciuta, si informa sulle adozioni internazionali, investe nel costoso progetto i soldi del risarcimento: il padre è morto avvelenato per l’amianto, in una fabbrica ora chiusa. I protagonisti veri della storia la rimettono in scena. Per gli spettatori, e per raccontare le cose che nella realtà non avevano osato dirsi, forse neppure pensare. 80 minuti – va rilevato perché perdersi in una storia vera con i veri protagonisti è anche più difficile che tagliare il superfluo di un copione inventato – di belle inquadrature ravvicinate.