FACCE DISPARI

Pappi Corsicato: “Nei film racconto le donne che non s'arrendono mai”

Francesco Palmieri

Intervista al regista che il 9 ottobre sbarca su Netflix con la serie tv "Inganno"

Napoletano di specie schiva, volitivo senza fatalismo, Pappi Corsicato non è un regista consegnato a un genere ma predilige alcuni temi ricorrenti, dall’esplorazione delle relazioni umane all’arte contemporanea. L’ultimo impegno dietro la macchina da presa s’intitola “Inganno”: una serie tv in sei episodi che andrà in onda su Netflix dal 9 ottobre e ha per protagonista una sessantenne (Monica Guerritore) che s’innamora di un ragazzo dell’età dei suoi figli. La sceneggiatura non l’ha scritta lui, però lo ha appassionato perché gli ripropone un certo archetipo femminile che ha raccontato altre volte.

 

Quale tipo di donna?

Quella dalla forte personalità, vorrei dire quasi maschile, che anche quando perde o rischia di perdere non si lascia sconfiggere. Mi affascinano le donne che ci provano sempre, anche se devono affrontare un sacrificio per uscire da una situazione umana in cui non si riconoscono più.

 

Non pronunciamo la parola “resilienti”.

Non ci penso nemmeno. Quel che m’interessa da sempre è la possibilità di cambiare nella vita, o almeno di provarci. La difficoltà è mettere a fuoco i desideri autentici di ognuno.

 

Non crede all’influenza del destino?

Chiamiamo destino ciò che noi stessi abbiamo creato, ma non vogliamo ammetterlo. Il cosiddetto caso, o la fortuna, nel bene o nel male sono generati da noi. Chi se ne lamenta deve porsi un termine, non farne il mantra della sua condizione. Va bene piangersi addosso, ma per non più di tre giorni.

 

Sublimare l’esperienza del passato in nostalgia non è un potente motore della creazione artistica?

A patto che la nostalgia non diventi stagnazione e sia trattata con calviniana leggerezza. Che sia vissuta come memoria cui attingere. Non come uno stato in cui ci si compiaccia indugiare, ma con la disposizione d’animo che mi ha ispirato per esempio il film “I buchi neri” o il documentario che ho dedicato a Jeff Koons l’anno scorso. Le creazioni di quest’artista richiamano l’infanzia e restituiscono il senso di stupore, quella meraviglia che provavamo da bambini, effimera ma radicata nei materiali forti della realizzazione, come l’acciaio. È un’evocazione che non imprigiona, almeno secondo la mia lettura, perché quando giro un documentario, come è stato anche per “L’arte viva di Julian Schnabel”, non ricerco la pura oggettività. Nei ritratti degli altri trasfondo anche il mio, amo gli artisti in cui mi riconosco e i temi che mi piace analizzare. Non sono asettico né didattico.

 

Tra piattaforme e sale cinematografiche, non teme che le prime annichiliscano le seconde? O che un regista rischi di appiattirsi per assecondare il marketing?

È un dualismo che non ha più senso, una paura non più giustificata, un atteggiamento ancien régime che si rifiuta di accettare i cambiamenti. Ognuno è libero di fare quel che vuole, ma per quanto mi riguarda delle piattaforme vedo solo i vantaggi. Se un film è bello o brutto dipende da tutt’altri fattori.

 

Qual è il suo pubblico ideale?

Spero di non averlo, anzi mi sono sempre sforzato di non immaginare un mio pubblico ma di pensare a film trasversali per età, ceto sociale, cultura. Non coltivo un target né mi domando a chi potrà piacere un’opera, tantomeno per anagrafe. L’appartenenza generazionale non mi condiziona: provo una giovanile vitalità interiore e il tema dell’amore è tra le mie costanti, come nella vita. C’è chi non ne parla per pudore o finge di non dargli più troppa importanza, però gli credo poco. Non si può mai prescindere dal desiderare e dall’essere desiderati. È come mangiare e bere, perciò il mio pubblico può essere chiunque. Non punto su discorsi astratti e complicati o che necessitino di un peculiare background.

 

La convince l’attuale narrazione di Napoli?

La trovo più variegata di una volta, con voci diverse nel cinema, nella musica e in letteratura. La città riesce a sfuggire ai cliché proprio grazie alla sua bellezza naturale e artistica. Credo che, malgrado i lati oscuri, una sorta di edonismo estetico le conferisca maggiore energia rispetto ad altre città pure assai belle ma dall’impatto più monotematico. E penso che questa energia si manifesti anche nelle contraddizioni del suo popolo.

 

Le cosiddette “due Napoli”?

No, piuttosto una città trasversale.

 

Si salverà dal turismo o il turismo la salva?

Conosco palmo a palmo Posillipo e Mergellina e quando ci cammino ne ricevo sempre un senso di morbida accoglienza ma pure un sentimento di sorpresa, quasi che l’emanazione degli antichi miti non sia evaporata. Immagino che valga, a maggior ragione, per chi arriva da fuori. È la percezione di questo mistero che salva Napoli dalla banalità del mero approdo turistico. Certo, poiché sono cresciuto a Marechiaro il fronte dell’acqua mi seduce di più: il Golfo mi rimanda a una manifestazione femminile, non a caso fra i libri che mi hanno più decisamente formato metto “Ferito a morte” di Raffaele La Capria e “L’isola di Arturo” di Elsa Morante. Dove c’è tanto mare.

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