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In America

“The Apprentice” è il film che non toglierà a Trump neanche un voto

Mariarosa Mancuso

Quando il regista iraniano Ali Abbasi lo aveva presentato al Festival di Cannes si era parlato di querele e minacce, ma non è successo nulla. Dal 17 ottobre arriva ufficialmente nei cinema italiani la storia di come l'ex presidente repubblicano è diventato The Donald

Si controlla il ciuffo negli specchietti retrovisori delle auto ferme. Guai a presentarsi ai clienti con la chioma fuori posto: è una delle regole del giovane Trump, l’apprendista di questo film. Fuori posto – fuori da ogni posto e per l’eternità – sarà il ciuffo color carota, nelle varie fogge e sfumature esibite negli anni.

Qui siamo negli anni 70. Quando Trump a New York voleva dire Elizabeth Trump. Pure lei diversamente acconciata: a tavola sfoggia una cotonatura bionda alta 20 centimetri, potrebbero essere trenta, usiamo come misurino la torre di ricci blu di Marge Simpson. Né il giovane Trump, né mamma Elizabeth sanno con precisione vedere nel futuro. C’è riuscito Matt Groening che ha inventato la serie alla fine nel 1987. Dal 1989 gli episodi, lunghi mezz’ora, vanno in onda senza interruzione, fa 36 stagioni. Per caso o per lungimiranza hanno azzeccato molti dettagli: l’intelligente di famiglia Lisa, studiosa e l’unica non votata alle birre, diventa presidente Usa, una Kamala Harris con tailleur, golfino e perle molto somigliante all’originale.

Torniamo a “The Apprentice”, nei cinema da oggi 15 ottobre per una serie di anteprime in varie città italiane. L’uscita ufficiale sarà il 17: pochi giorni di anticipo per ritentare “l’effetto pochi eletti” che ha pompato gli incassi per “Vermiglio” di Maura Delpero. Perché non mollare il divano, per una sera, e andare a vedere come ha fatto fortuna quel tipo che vuol diventare presidente degli Stati Uniti – non aveva già vinto, una volta? E quando aveva perso era tornato con il vichingo a petto nudo con le corna? E ora si è scelto come candidato vice J. D. Vance? Sappiamo la sua vice-storia dal film e dal libro “Hillbilly Elegy”: l’America povera, disoccupata, le nonne alcolizzate, le madri drogate – e i figli che grazie alla fatica indefessa, ai sussidi, al servizio militare nei marine e alle borse di studio riescono a laurearsi a Yale.

Mentre Vance studiava – ha 40 anni, Trump ne ha 78 – il tycoon badava agli interessi immobiliari del padre, intesi come certi palazzi a Brooklyn, Queens e Staten Island. Gli inquilini che non pagavano l’affitto, perlopiù. Ma era difficile cacciarli fuori tutti insieme, o anche a piccole dosi: l’accusa era discriminazione razziale. Trump padre si difendeva così: “Non sono razzista, ho un autista nero”. Gli inquilini non pagavano, e il giovane Donald aveva altre ambizioni: il centro di Manhattan.

Sceglie come mentore l’avvocato Roy Cohn. O forse è Cohn a scegliere il promettente allievo. Se qualche volta andate a teatro, oltre che al cinema, Roy Cohn era un personaggio di “Angels in America”, grandissimo testo teatrale del premio Pulitzer Tony Kushner. Sottotitolo: “Fantasia gay sui temi nazionali” (volevamo togliere “gay”, che qui non c’entra, solo Cohn era omosessuale e se ne vergognava, negò fino all’ultimo di essere malato di Aids). L’attore è Jeremy Strong, il Kendall Roy nell’indimenticabile “Succession”.

Il regista Ali Abbasi è nato in una paesino vicino a Teheran, nel 2002 è emigrato prima a Stoccolma poi a Copenhagen per studiare cinema – ora ha il passaporto danese. Quando “The Apprentice - Alle origini di Trump” fu presentato al Festival di Cannes si parlava di querele, sequestro del film, minacce al regista. Non è successo nulla. E poco succederà: il film non toglierà alla seconda campagna elettorale di Trump neanche un voto (c’è una moglie violentata, forse il #MeToo ma pare un poco stanco). I suoi seguaci amano il ciuffettone per quel che è: uno che sempre attacca, che nega ogni accusa, che non ammette mai la sconfitta. Nessuno di loro andrà mai a vedere il film di un regista con il nome esotico.

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