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Festa del cinema di Roma

Com'è grigio questo segretario Berlinguer visto come un padre della patria

Andrea Minuz

Il film "La grande ambizione” di Andrea Segre, con Elio Germano. Chi non sa nulla scambierebbe il leader del Partito comunista per il nostro Churchill: si prende il paese sulle spalle e lo tira fuori dall’ora più buia

Anche Berlinguer finisce sul red carpet. Ma è un red carpet “sobrio e misurato”, spiega subito Repubblica. Tante celebrities composte e  in total black, dalla giuria di “X-Factor” ai coniugi Zingaretti. Però anche una scintillante Laetitia Casta e Valeria Marini con la coda, “una sirena all’Auditorium”, che ora sogna di lavorare con Ozpetek e Bellocchio. Riecco la “Festa del cinema di Roma Nord” (i romani la chiamano così perché se abiti a Roma Sud è più facile andare a Cannes o Venezia). Si comincia con “La grande ambizione” di Andrea Segre, con Elio Germano che fa Berlinguer. Le analogie sono tante: anche Elio Germano ce l’ha col mercato, il capitalismo, lo “strapotere economico delle piattaforme che sfruttano gli attori”, come ieri fabbriche e operai. Anche lui è un “antidivo” come Berlinguer, simmetrico opposto del “Divo Giulio” Andreotti, ai social preferisce i centri sociali, e forse non ha la tv a colori in casa. Il film di Segre arriva al culmine di un anno di commemorazioni, mostre, libri, documentari sul segretario del Pci.

Nelle vetrine dell’Auditorium ieri si sfoggiavano le biografie del segretario, Sorgi, Veltroni, Telese, soprattutto un’edizione tascabile del “Compromesso storico”. Nel film c’è l’epica eroica e intimista degli ultimi dieci anni di Berlinguer, tra il golpe in Cile e il comizio di Padova, coi funerali di popolo che spezzano il cuore nel gran finale. Parecchie immagini di repertorio. Un’Italia scomparsa, forse inghiottita in un universo parallelo, facce ancora da lungo dopoguerra. Una fotografia tetra, gelida, grigia, come quegli anni. Non troppo “effetto Bagaglino”, anche se ogni tanto, nelle riunioni a Botteghe Oscure, i personaggi mi sembravano tutti Crozza. Elio Germano però è bravo. Sfoggia un Berlinguer sempre rattrappito su sé stesso, già sconfitto all’inizio del film, e ci infila qualcosa del Leopardi che aveva interpretato per Martone.

Entrato nel cinema come ossessione erotica del Benigni/Mario Cioni di “Berlinguer ti voglio bene” (promessa di un orgasmo proletario, gioia, orge, rivoluzioni) Berlinguer torna cinquant’anni dopo da padre della patria. Un campione di democrazia. Chi non sa nulla lo scambierebbe per il nostro Churchill, si prende il paese sulle spalle, lo tira fuori dall’ora più buia. Per tutto il film Berlinguer parla come un articolo di Rinascita. Micidiali spiegoni e prosa segretariale, anche a casa, con moglie e figli, sulla linea del partito, l’eurocomunismo, l’apertura alla Democrazia cristiana. Un tripudio di antidialoghi cinematografici. Bandiere rosse, piazze piene, pugni chiusi, si sa tornano sempre nel cinema italiano, proprio come Marx, le maglie a righe e i pantaloni a zampa (e come dice un vecchio proverbio ministeriale che gira nelle commissioni dei finanziamenti per i film: “Se la sceneggiatura è brutta, ambientala negli anni Settanta”). E in questo Berlinguer cinematografico rivivono i soliti punti fermi: gli anni Settanta erano difficili ma certo molto meglio di quel che è venuto dopo. Dalla povertà non ci ha tirato fuori il capitalismo – anche quel poco che abbiamo avuto qui – ma non si sa chi. Il comunismo italiano è un sogno interrotto, puro, immacolato. Niente a che fare con Marx e Lenin.

A un certo punto, Berlinguer prende a calci un pallone nel parco e spiega ai figli la bellezza di vivere in una società socialista. “Tutti avranno ciò che gli serve, ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. “Nessuno guadagnerà più degli altri, noi nel partito prendiamo tutti gli stesso soldi, e restituiamo il 48 per cento”. I figli qui sembrano perplessi, “ma se uno lavora di più non dovrebbe avere più soldi?” Berlinguer ci pensa su, “ma no, non avrà bisogno di avere più soldi”. E qui Berlinguer aveva ragione. All’università, dove lavoro, in effetti funziona proprio così. Chi si vede pochino, si imbosca, e fa trenta esami all’anno, guadagna esattamente come me che lavoro il triplo e di esami ne faccio settecento. Solo che io avrei bisogno di più soldi (c’è il mutuo).