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Già in “Nuovo cinema paradiso” di Giuseppe Tornatore con il piccolo Salvatore Cascio, 1988, ci si struggeva di nostalgia per la fine delle sale cinematografiche
La sera andavamo al cinema
La protesta per le sale che chiudono e il ricordo di un rito novecentesco. Quando un film era un’occasione di socialità. I western e i cineclub, il fumo e le maschere, “La corazzata Potemkin” e l’educazione sentimentale
Nel 1988 un film bellissimo come “Nuovo cinema paradiso” di Giuseppe Tornatore si struggeva di nostalgia per la fine delle sale cinematografiche: con le musiche meravigliose di Ennio Morricone a esasperare il nostro dolore, piangevamo tutti come fontane quando le ruspe abbattevano le mura di quel luogo dell’anima, una parte essenziale della nostra vita. Oggi si ha nostalgia del 1988, quando tantissime sale scomparse erano ancora vive e vegete, lo viviamo come un paradiso sì, ma un paradiso perduto. Deve essere una percezione distorta, visto che esattamente in quegli stessi anni uscì “Splendor” di Ettore Scola, segno che la ferita delle sale svanite, di una consuetudine culturale interrotta, stava già sbranando certezze e passioni per il cinema che solo poco prima apparivano inestinguibili.
E proprio in questi giorni a Roma attrici e attori, registi e produttori protestano e si dannano perché una società olandese sembra stia comprando ciò che resta di tante sale superstiti. Sale che in parte sono già chiuse, ma che, trasformate definitivamente in luoghi di tutt’altra natura, renderanno inevitabile intonare il de profundis del cinema. Ogni tanto rifaccio l’elenco dei cinema che ho frequentato compulsivamente e che oggi sono tristemente sigillati: percorsi dell’immaginazione spezzati per sempre, sentieri interrotti della memoria e della vita. Le sale sono state il perno della cultura del Novecento e nel nuovo secolo boccheggiano, vacillano, cedono, alzano bandiera bianca.
Solo qualche volta la Rai ancora monopolista trasmetteva un film, sempre di lunedì, e talvolta con dibattito a seguire. Bisognava uscire di casa
E chi non ha vissuto il Novecento e si è spiritualmente formato nelle atmosfere del nuovo secolo forse non riuscirà nemmeno a immaginare cosa sono state le sale cinematografiche amate e frequentate dalle generazioni immediatamente precedenti. Che tipo di socialità segnavano, che genere di linguaggio alimentavano, come plasmavano la stessa struttura esistenziale di chi le ha vissute, qualche volta maltrattate, percepite come qualcosa di naturale che mai nessuna trasformazione storica, per quanto radicale, avrebbe potuto annichilire. Ecco che cosa accadeva quando le sale esistevano e nessuno poteva immaginare di protestare un giorno per la loro dolorosa scomparsa.
Non c’erano ancora le cassette, i Vhs, i Dvd, lo streaming che ti permette di vedere un film seduto sul divano di casa. Solo qualche volta la Rai ancora monopolista trasmetteva un film, sempre di lunedì, e talvolta con dibattito a seguire con il critico, il sociologo, lo psicologo, che poi spesso più che dibattiti erano noiose lezioncine edificanti, in linea con l’imperativo pedagogico del servizio pubblico. Per vedere un film dovevi per forza uscire di casa. Per questo c’erano le prime visioni, le seconde visioni, le terze visioni, poi i cinema d’essai, i cineclub, e all’inizio della carriera della vita c’erano le sale parrocchiali, dove trasmettevano quasi esclusivamente film western non sempre di classe eccellente, con gli indiani che facevano augh e tiravano le frecce e i “nostri” che arrivavano sempre a passo di carica, galvanizzati da apposite marcette eseguite dai trombettieri. Il passaggio dall’età dell’infanzia all’età adulta coincise per quelli della mia generazione con un drammatico cambiamento del punto di vista: nei cinema parrocchiali stavi con i bianchi in divisa blu, poi nei cinema per grandi dove (a parte i formidabili spaghetti western di Sergio Leone) davano “Soldato blu” o “Piccolo grande uomo” stavi con i nativi americani non più indiani e i cattivi, gli ex “nostri” erano i bianchi in divisa blu.
Era incoercibile la tendenza a fissare la giusta linea su qualsiasi cosa, ho visto coppie scoppiare per colpa di “Novecento” di Bertolucci
Nelle sale i film venivano trasmessi per un periodo molto lungo, nelle terze visioni per un periodo addirittura lunghissimo. Non c’era verso di perderli, non come oggi che vivono in sala un paio di settimane o addirittura nell’arco di un weekend e poi basta. La differenza tra le prime e le seconde visioni, dal punto di vista della comodità e dell’arredamento, era quasi minima: certo, le prime visioni avevano poltrone più chic e attraenti, ma le seconde erano disseminate nei quartieri, e ci si arrivava tranquillamente a piedi, mobilitando interi nuclei famigliari. La terza visione no, era proprio scomoda, anche se aveva il pregio di farti vedere film usciti molti mesi prima, circostanza oggi semplicemente inimmaginabile: le poltrone erano sediacce di legno con la seduta che cigolava e dopo un po’ dovevi sgranchirti per via del mal di schiena, ma niente in confronto alla dolce e masochisticamente attesa tortura di alcuni cinema d’essai.
A Roma le prime visioni avevano nomi solenni che è difficile dimenticare e che oggi giacciono solo nel cimitero della memoria: Embassy e Etoile, Ariston e Rouge et Noir, Metropolitan e Capranica, e chissà quanti altri ancora. Tutti scomparsi, oggi sono sale bingo, oppure protetti da muri di compensato fissati con i chiodi per non farci dormire gli homeless, come il Fiamma, oppure grandi profumerie, o meglio megastore di cosmetici e profumi. Al cinema si poteva fumare. Alcune sale erano dotate di un tetto che si apriva durante l’intervallo per far uscire le spesse nuvole di fumo che stagnavano: del resto non è vero che le sale fossero buie, illuminate solo dalla magia del grande schermo, invece era un continuo accendersi di fiammiferi e braci ardenti che si facevano luminose e brillanti quando si tirava forte, cioè sempre. Il tetto c’era semplicemente perché c’era l’intervallo che divideva stabilmente primo e secondo tempo. Alcuni, durante l’intervallo, uscivano per farsi due chiacchiere, o cercavano il gabinetto, altri andavano all’inseguimento dell’inserviente con la giacchetta logora di un’improbabile divisa che girava per la sala con il suo banconcino a tracolla pieno fino all’orlo di cioccolatini gelato, popcorn, patatine fritte, liquirizie – girelle o bastoncini – caramelle, bottigliette di Coca Cola (che poteva aprire solo lui, l’unico dotato di cavatappi obbligatorio con quel tipo di tappi). Con l’eccezione di casi molto rari, non c’erano poltrone assegnate per fila e per numero di posto, fatto che provocava di tanto in tanto furiose risse verbali tra chi occupava con i cappotti file intere in attesa degli amici ritardatari e chi sosteneva che chi primo arriva si prende il posto. C’erano le maschere, sempre molto gentili e premurose, dotate di una pila per orientare chi entrava quando la sala era già buia. Se arrivavi tardi, ti toccavano i primi posti subito sotto lo schermo, con gravi conseguenze per la cervicale.
La differenza tra le prime e le seconde visioni, dal punto di vista della comodità, era quasi minima. La terza visione no, era su sediacce di legno
Alcune sale più movimentiste permettevano posti a sedere per terra, lungo i corridoi laterali. Non essendoci prenotazioni, spesso i gruppi venivano smembrati per occupare gli unici posti disponibili, per cui poteva capitare che andavi al cinema in un gruppo di otto ma ti ritrovavi a vedere il film da solo, schiacciato tra due sconosciuti. A proposito: in sala si poteva entrare sempre, anche quando il film era cominciato da tempo e magari si era già quasi a metà. Poi si restava quando il film era finito per aspettare quello successivo e guardare quello che ti eri perduto. Poi, nel mezzo del film, te ne andavi e al tuo posto arrivava lesto qualcuno che era seduto per terra. Questa degli orari non rispettati e dei film gustati a pezzi era un’abitudine molto diffusa, ma non mi ricordo rimproveri da parte dei sacerdoti della sacralità delle sale cinematografiche. Oggi sarebbe impossibile, i sacerdoti sono diventati più severi e prescrittivi (o forse sono solo invecchiati e incattiviti e peggiorati, dunque più intolleranti), ma le sale, quelle che non hanno ancora abbassato definitivamente le saracinesche, si sono mestamente svuotate, un po’ come le chiese.
Cineclub e cinema d’essai erano luoghi decisamente più di nicchia, il paradiso degli intellettuali, ma soprattutto dei giovani che aspiravano a diventare intellettuali. Nei cineclub talvolta si avviava il dibattito, da cui per lo più si scappava, proprio come in “Io sono un autarchico” quando dal fondo della sala partiva la supplica: “No, il dibattito nooo!”. Però gli accesi dibattiti (quando non si andava in pizzeria: cinema più pizzeria era una consuetudine abbastanza praticata) partivano all’uscita tra i gruppi di amici, talvolta fino alle ore piccole. Perché in quel Novecento oramai smarrito non c’erano solo le sale cinematografiche, c’era l’idea o la percezione che il cinema fosse una parte fondamentale nell’educazione sentimentale, che ti dicesse qualcosa, che raccontasse qualcosa di veramente importante. Se si aggiunge che in un’epoca di ideologie imperanti (e asfissianti) era incoercibile la tendenza a fissare la giusta linea su qualsiasi cosa, nella vita come nella rappresentazione artistica genericamente intesa, si capisce che l’impulso alla discussione continua e interminabile fosse diventata quasi una funzione sacra, qualcosa di imprescindibile: ho visto coppie scoppiare per colpa di “Novecento” di Bernardo Bertolucci.
La morte delle sale non è colpa degli esercenti avidi, o dei compratori. E’ colpa del fatto che ti arriva tutto a casa, inducendoti la tentazione di non uscire
Il cineclub, poi, era letteralmente una scuola. I suoi libri di testo erano racchiusi in un foglietto mensile che indicava la programmazione in arrivo per tutti i successivi trenta giorni: tutto Buñuel, tutto Hitchcock, tutto Humphrey Bogart, tutti i film russi (“La corazzata Potemkin” l’abbiamo vista e rivista davvero, per questo la profanazione di Fantozzi ci è sembrato un rito liberatorio, l’emancipazione da un obbligo di “impegno” tutto sommato abbastanza noioso). Con la penna (la Bic) ci segnavamo i film da vedere e via via, mese dopo mese, finivamo per formare nella nostra testa una discreta antologia di classici molto somigliante agli scaffali delle librerie con i classici della letteratura: Tolstoj, Balzac, Kafka e così via. Ho scoperto che i più giovani, che pure hanno una ammirevole passione per il cinema, avendo perduto i cineclub e i cinema d’essai hanno anche perduto dimestichezza con i classici della storia del cinema. E ho inoltre scoperto che i film che erano contemporanei per molti di noi, “Il laureato” o “Conoscenza carnale” o “Easy Rider”, sono diventati classici per loro, solo che non li trovano da nessuna parte. O meglio, li trovano, ma con molta difficoltà e perizia elettronica.
A Roma il Nuovo Olimpia e il Farnese erano luoghi sociali di appuntamenti fissi. Tutti avevano quei foglietti con la programmazione mensile e nessuno si voleva perdere “La corazzata Potemkin”. Imbevuti di pregiudizi omofobi, evitavamo al Nuovo Olimpia le ultime file vicino ai bagni dove guardavano il film uomini tristi e solitari. Il buio delle sale cinematografiche incoraggiava questo genere di mitologie e le sale, essendo un luogo sociale, favorivano anche il conformismo di gruppo. O anche il bullismo goliardico, che oggi fa ridere come nelle scene esilaranti di “Nuovo cinema paradiso”, ma che allora nascondeva anche una certa ferocia.
Nei cinema più piccoli programmavano anche quelle che oggi chiameremmo serie: lì si potevano vedere tutte le puntate di “Heimat” che scatenavano discussioni a non finire sul messaggio contenuto in quella pellicola (si diceva pellicola). Andare al cinema era un’abitudine radicata. Avendo un numero elevatissimo di sale a disposizione, prime, seconde e terze visioni, non era raro che in un solo giorno si vedessero almeno due film. Ce n’erano tantissime, tante anche in un solo quartiere: a mia memoria nel vasto quartiere romano dove sono cresciuto e ho compiuto la mia educazione sentimentale ce n’erano almeno nove, cineclub compresi. Oggi numerose piccole città hanno forse una sala, o un multisala. E basta.
Le sale chiudono e per andare al cinema devi accollarti molte scomodità. A Roma incredibilmente la metro chiude prestissimo per cui è impossibile raggiungere il centro se non con una macchina che non troverà mai un parcheggio decente nei paraggi. I multisala sono luoghi che assomigliano più a una discoteca o a un centro commerciale che a una sala raccolta, senza grandi frastuoni. Capisco che possa essere considerata una lamentazione da anziani, ma se tagli fuori il target degli anziani, cresciuti a pane e film, il cinema ha già messo un piede nella fossa: e infatti. Gli arredatori e le star del design non si sa perché hanno deciso sadicamente di mimetizzare le lettere delle file e il numero dei posti, e non essendoci più le maschere per via del taglio ai costi del personale, per trovare la tua poltrona sei costretto a contorsioni che assomigliano a faticosi esercizi di pilates. E ancora: le persone, che oramai vanno al cinema pensando di guardare il film dal divano di casa, chiacchierano ad alta voce, commentano, guardano i messaggini e ne comunicano il contenuto al vicino. Inoltre il telecomando ha alimentato e assecondato l’impazienza sempre più accentuata delle persone (come me) che in casa mollano un film in tv se non è di loro gradimento o spingono il tasto per velocizzare i punti morti: mentre in sala sei costretto a restare fino alla fine per buona educazione, per non fare brutte figure e per ammortizzare il costo del biglietto. Tranne infime minoranze, l’abitudine della sala cinematografica si è trasformata sia nelle grandi che nelle piccole città in un impegno saltuario, comunque più raro. La morte delle sale non è colpa degli esercenti avidi, o dei compratori che vogliono svilirle a fast-food. E’ colpa nostra, è colpa mia, è colpa del mondo, è colpa del fatto che ti arriva tutto a casa, inducendoti la tentazione di non uscire e di guardare tutto attraverso una piattaforma. Peccato, chi non ha mai visto un film in terza visione non sa cosa si è perduto (e comunque “La corazzata Potemkin” era un gran film).