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"a un passo dal baratro"

Luchetti sta con Avati: un'istituzione solo per il cinema, fuori dai Beni culturali

Andrea Minuz

Registi e addetti ai lavori sostengono la proposta di un ministero ad hoc: “Il cinema non può essere trattato come un bene culturale qualunque”. Ma il governo lo sottovaluta e la crisi si aggrava

Dunque Pupi Avati ha un’idea per salvare il cinema italiano. Magari un’idea sola non basta ma è già qualcosa. In un’intervista uscita sul Corriere in cui evocava cupi scenari (“sta per finire tutto”, “siamo a un passo dal baratro”, in sintesi: stanno finendo i soldi) proponeva una riforma strutturale del settore: “Toglierlo dalle competenze dal ministero della Cultura e creare un ministero ad hoc per il cinema, gli audiovisivi e la cultura digitale”. A prima vista un altro ministero non è esattamente quell’“operazione-simpatia” che ci vuole per rilanciare l’immagine del cinema italiano. Però molti dei problemi di sistema vengono anche da questo mastodontico corpaccione burocratico che amministra un’idea troppo vaga di Beni culturali con gli Uffizi, gli scavi di Pompei, le catacombe, i teatri del Settecento, ma anche videogame, film, serie tv, che fatalmente vengono sempre dopo e c’entrano anche poco col resto. Il cinema ha bisogno di un suo spazio specifico. Marco Tullio Giordana e Giuseppe Tornatore hanno già rilanciato con entusiasmo. La pensa così anche Daniele Luchetti. “Certo che siamo tutti d’accordo. Sono anni che lo diciamo. Ci vuole un’istituzione che si occupi solo di cinema e audiovisivo, come ad esempio il Cnc in Francia (“Centre national du cinéma et de l’image animée”). E mi pare giusta l’idea di metterci il digitale, come propone Pupi Avati, perché la distinzione tra cinema, televisione, digitale è ormai priva di senso” (provate a spiegarla, come mi è capitato di recente, a un adolescente nato nel 2009 e vi guarderà con gli occhi sgranati). 

Luchetti spiega che qui c’è un tema molto tecnico e concreto, “una questione di personale specifico, adeguato, capace di gestire un’industria come il cinema”. “Un ente del genere potrebbe anche sciogliere in tempi più rapidi le pratiche amministrative, la fitta burocrazia, i pagamenti, tutte cose che pesano molto su un settore che dovrebbe essere dinamico”. Ma c’è anche una tema “strategico”, come si dice in questi casi. Dire che il cinema è un fatto culturale, legato all’identità culturale di un paese, non significa farlo rientrare nei Beni culturali, dove peraltro è sempre stato ospite poco gradito. “Il cinema c’entra davvero poco con i Beni culturali”, dice Luchetti, esiste il ‘classico’ nel cinema: è il patrimonio del passato che deve essere conservato, ma c’è il cinema del presente  e del futuro che deve  essere  pensato e progettato armoniosamente in termini artistici e industriali. Non è un’industria come tutte le altre. I film sono dei prototipi e nessuno saprà mai in anticipo se quel prototipo funziona. Le parole-chiave sono ‘sperimentazione’, ‘innovazione permanente’ non solo ‘conservazione’. Il cinema poi è una strana bestia: a volte è intrattenimento puro, a volte artigianato, a volte una truffa,  solo a volte arte. I beni culturali invece sono stabilizzati, selezionati dal tempo, sono un canone condiviso”. 

Luchetti condivide la visione cupa di Pupi Avati: “Anche per me ora lo scenario è preoccupante perché al momento è ancora incerto. La legge sul Tax Credit ha funzionato come grande attrattiva per investire in Italia, stava succedendo qualcosa di nuovo, eravamo all’inizio di un sistema virtuoso i cui effetti non possono essere immediati, ma se poi le regole cambiano in corsa diventa complicato convincere le multinazionali a restare. Per colpa di qualche illecito non possiamo mandare via tutto il denaro che ora invece finisce magari in Spagna anziché da noi”. 

Pupi Avati sollevava anche un tema politico. Il governo sottovaluta il cinema, lo considera una battaglia persa, una “cosa di sinistra, fatta per gente di sinistra”. “Ma saranno quarant’anni che in Italia non si fa un film militante!... un film di sinistra”, dice Luchetti. “La verità è che il cinema quando fa comodo diventa un tema elettorale, un nuovo nemico, come il migrante, perché al cinema si può attribuire di tutto, è un mutaforme”. Ma poi è sempre complicato rispondere oggi alla domanda, “che cos’è un film di sinistra”. Neanche la destra lo sa. “Forse ha a che fare con le preferenze elettorali dei registi, ma è vero che chi si occupa di cultura oggi vota a sinistra”. E perché? “Questo bisognerebbe chiederlo alla destra”, dice Luchetti. “Forse non ci sono molti registi di destra perché ormai si guadagna poco, come dice Pupi Avati”.

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